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I love my jobs

All’inizio questo articolo doveva intitolarsi “Curriculum“, come la canzone omonima dei Virginiana Miller che mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca, before it was cool. Poi le cose dei grandi mi hanno distratta e ho rimandato.

Ho pensato, allora, di scriverlo sotto le feste e intitolarlo “Canto di Natale” come il racconto di Dickens, tanto di soldi e di lavoro più o meno sempre si trattava. Poi di nuovo le cose dei grandi sono intervenute e ho rimandato ancora una volta.

Nel momento in cui finalmente sto scrivendo, è il 31 dicembre, questo articolo ancora non ha un titolo e neanche so se lo finirò oggi, altrimenti diventa l’ennesimo contenuto di fine anno, anche quando finge di non esserlo.

Quindi sì, questo è l’ennesimo contenuto che leggerà la mia famiglia, ma 1) ho pagato anche nel 2023 per mantenere questo dominio, anche se avevo detto basta scrivere, là fuori è pieno di gente che scrive, io da grande voglio fare quella che non scrive.

Ma soprattutto 2) mi sono resa conto che se di certe cose non avessi parlato in privato con alcune persone, mi sarebbe rimasta per sempre l’impressione di essere l’unica scema del villaggio digitale.

Avvertenze per l’uso

Questo articolo è scritto ignorando qualsiasi nozione o buona norma di scrittura su web, mi dispiace, ma scrivendo una volta all’anno, che senso ha curare anche la forma? In un’altra vita, eh.

Faccio pilates, ma niente di serio

Sarò breve: nel 2019 mi dimetto da un lavoro come dipendente per una società, all’interno di un acceleratore e incubatore di start up. Non scriverò quanto, sul finale, quell’esperienza mi abbia traumatizzata, non è il motivo per cui annoto queste considerazioni. L’aspetto pertinente è perché io abbia iniziato quella esperienza e cosa stavo facendo fino a quel momento.

Mi tocca aprire una parentesi, che forse lascerò aperta, tanto con la crisi climatica sembra giugno. Io sono laureata in Scienze della Comunicazione, ho un master in Brand Management e tante altre specializzazioni, tra cui alcune nel fitness e, in particolare, sul pilates. Dice perché?
Quando avevo vent’anni e ancora studiavo, stavo con un insegnante di yoga e pilates, il quale mi introdusse a queste discipline, convincendomi a prendere le certificazioni. C’erano coetaneee e coetanei che lavoravano nei negozi e nei pub per mantenersi agli studi, io facevo l’istruttrice.

Lavori di serie A e lavori di serie B

Arriva, qui, un nodo delicato: la mia è una generazione cresciuta, per chi se lo poteva permettere, nell’idealizzazione del “lavoro per cui hai studiato”. Della credenza che esistesse un lavoro di serie A e un lavoro di serie B. Se i nostri genitori hanno vissuto nell’epoca del lavoro fisso, noi ci siamo cullati nella certezza che gli studi ci avrebbero aperto le porte di professioni prestigiose, stimolanti e appaganti. O almeno così è stato per me e per molte delle persone che conosco. Avevamo la possibilità di studiare e dovevamo onorarla con il dovere di fregiarci di titoli professionali rispettabili. Non volendo, il classismo aveva già messo radici in noi, non ce lo vogliamo dire ma è così. Io facevo l’istruttrice, ma era un lavoro di ripiego, io ero laureata in altro! Non importava che avessi studiato anche per quello, non era la laurea che avevo preso, ragionavo in termini di laurea magistrale (e master) > certificazioni fitness. Anche perché, lo ammetto, trovavo la maggior parte dei miei colleghi di allora un po’ tutti muscoli e niente cervello.

Il lavoro per cui ho studiato

Da quando inizio a fare l’istruttrice a quando smetto, passano più di dieci anni. Anni felici, eh, soddisfacenti, divertenti, ma sempre nella convinzione che dovesse ancora arrivare il mio momento, quello della donna in carriera con vestiti di laboratori artigianali e non sempre in tuta e felpa. Quello del “lavoro per cui ho studiato”. Nel frattempo ho preso un master, lavoricchiando contemporaneamente per i miei coordinatori, avvicinandomi a Instagram e creando un profilo che per qualche anno ha avuto un discreto seguito e mi ha permesso di provare, in minima parte, l’esperienza di quella che in futuro sarebbe diventata la figura del content creator.

Nel 2016 arriva la grande occasione, una mia amica che lavora per una start up mi contatta e, nel giro di un paio di mesi, lascio tutto: palestre, casa dove ho vissuto per anni, tutto. Finalmente il “lavoro per cui avevo studiato” si era accorto di me. Per un anno, forse anche due, mi sento come in una serie tv: colleghi simpatici, partite al computer nelle pause pranzo, aperitivi con le amiche che lavorano nei dintorni, tuta solo in rare occasioni, beer pong durante le feste aziendale, discorsi stimolanti, occasioni importanti. Sono un incrocio tra Silicon Valley e Mad Men. Vedi che ho fatto bene a prendere ‘sta laurea?

Foto di Shridhar Gupta su Unsplash

Poi alcuni colleghi cambiano, la società fa pivot e fa del suo business principale un settore interessante come il reparto viti di Leroy Merlin, arrivano degli altri colleghi con la prondità d’animo di una pozzanghera, ma sufficientemente miseri da farmi passare un intero anno di isolamento e e pianti al bagno. La strategia vincente, credo, sarebbe stata fare colloqui a tappeto e trovare di nuovo qualcosa di attinente “a quello per cui avevo studiato”, ma in questo sono un po’ carente. Tanto sono brava nei lavori che faccio, tanto non riesco a pensare più a niente se quel lavoro smette di corrispondere alle aspettative, entro in una spirale di vittimismo e delusione che mi impedisce di pensare a un piano alternativo.

Però una cosa la sapevo: avrei continuato in qualche modo a cercare quel fantomatico lavoro di serie A per cui avevo studiato. Spoiler: non l’ho trovato perché, guess what?, non esiste. Me lo avevano raccontato per anni, me le avevano raccontato le persone, me lo avevano mostrato nei film, ne ero convinta io: c’è un lavoro adatto a me, alle mie capacità e io lo troverò. Perché me lo merito, perché mi hanno detto che me lo merito.

Un job title per domarli

C’è un fatto, che a me proprio non va né su né giù. Quando io mi sono dimessa, non era ancora un tema caldo quello del lavoro e quindi io ho dovuto elaborare tutto da sola, poi a un certo punto non si parlava di altro. Grandi proclami sul fatto che il lavoro non ci definisce e poi “ecco il mio nuovo sito con i servizi che offro”, newsletter, video simpatici per ricordarci che “il lavoro non mi definisce, ma si da il caso che i love my job e che colleghi matti che ho”. Ok.
In maniera inconscia, perché sono sicura che la maggior parte delle persone non si rende conto di quale narrazione continui a portare avanti, esiste ancora una differenza tra lavoro di serie A (di cui si deve parlare, anche accennare, infilarlo lì) e un lavoro di serie B (su cui tacere se no ci abbassa il rating della bolla social). Sono pochissime le persone di cui non conosco il lavoro, un po’ perché effettivamente non è un argomento che ritengono di reale interesse, un po’ perché, in fondo in fondo, non è dignitoso dire che fai la commessa a quarant’anni, o la segretaria, o l’istruttrice (a meno che tu non abbia una tua attività ma allora lì si parla di imprenditoria). Nella cultura in cui Dawson voleva fare il regista e non il capomagazziniere, se non posso fregiarmi di titoli nobiliari quali “copywriter” o “digital strategist on the rocks”, la butto sulle passioni ed evito quanto più possibile di riferirmi in maniera chiara a come caccio i soldi per sopravvivere.

Foto di micheile henderson su Unsplash

Money

Cantavano i Pink Floyd: Money/get away/get a good job with more pay/and you’re OK.

Un’altra grande questione è quella dei soldi, perché, anche se sembra che nell’ultimo anno, se ne parli con molta più disinvoltura, la verità è che si tende a omettere qualche parte. Si tende a tacere su alcuni aspetti meno lirici, che però aiuterebbero a ridimensionare la situazione. E questo può avere un effetto più o meno profondo sulle fragilità delle persone. Io, che credevo di dover avere certe qualifiche data la mia laurea, quando non le ho raggiunte, mi sono sentita cretina a lungo. Non ero abbastanza brava, abbastanza esperta, avevo troppe esperienze alle spalle ma poca verticalità, cavolo tutti hanno lavori fichissimi e guardami!

L’impegno è uno degli animali fantastici

Ora, da una parte lo voglio ammettere: io non sono stata sufficientemente brava in alcuni ambiti e non ho sfruttato abbastanza alcune situazioni che mi avrebbero portato a mettere su LinkedIn un job title altisonante.
Ma avrei anche voluto che alcune storie fossero raccontate con più sincerità: faccio la consulente perché ho una casa in affitto che mi rende un’entrata sicura mensile. Sono un copywriter ma abito nell’appartamento di pora nonna morta, quindi non ho affitto né mutuo. Mi occupo di adv, ma ho venduto un rene quindi ho un po’ di soldi da parte.

Io, per esempio, ho potuto prendere certe decisioni, a volte anche frettolose, perché avevo dei soldi derivanti dalla vendita di una casa, un compagno che guadagna bene e una famiglia che mi sostiene. Mi sono anche impegnata tanto, ma l’impegno è un altro degli animali fantastici, esiste ma fino a un certo punto. L’impegno non è nulla senza le possibilità.

N.d.A: faccio riferimento a certe professioni perché io in quello mi sono laureata, se avessi fatto Medicina, prenderei altri esempi, non è una gara a quale categoria professionale sia migliore.

Cosa ci vuole dire l’artista

Io ci ho messo due anni e mezzo di terapia per non vergognarmi se ho fatto tante esperienze, se ho preso certificazioni diverse e frequentato altrettanti corsi. In questo periodo ho provato a sentirmi una donna di quarantatré anni con un solido bagaglio di conoscenze ed esperienze, anche se per ora prevale la parte di me che si vede garzone di bottega in attesa dell’approvazione del capomastro.

Conosco il pilates, come si struttura una strategia su Instagram, ho nozioni di metodologia agile e di editoria. Ho fatto anche la casalinga per un anno (lo scorso), quando cercavo di capire come potessi definirmi e sono ancora più convinta che il lavoro di cura vada retribuito, non dato per scontato perché si è sempre fatto (soprattutto se sei una donna).

Insieme alla mia terapeuta sono arrivata alla conclusione che tornare a fare pilates non è un passo indietro, anzi. Mi permette di mettere in pratica competenze che pensavo non c’entrassero nulla, come quelle imparate durante i corsi di project management. E mi lascia il tempo di dedicarmi anche ad altro.

Non ci sono lavori di serie A o di serie B, si può anche cambiare idea, laurearsi in Scienze della Comunicazione e scoprire che non è più la scelta azzeccata, si possono fare più cose insieme ed essere in grado di farle bene, si può fare lo stesso lavoro per vent’anni in maniera mediocre. C’è gente che è brava a cucinare e fotografare, c’è gente che scrive contenuti e io non le permetterei neanche di stilare la lista della spesa, c’è gente che vuole parlare del suo lavoro e gente che non si trova a suo agio nel comunicarlo attraverso certi canali.

Pensieri, parole, opere, omissioni

Alla fine ho scritto qualcosa per giustificare i soldi ad Aruba e l’ho scritto che è ancora il 31 dicembre. Magari qualche persona leggerà e si sentirà meno sola ad aver pensato certe cose, magari morirò stanotte perché non ho droppato una foto del mio ultimo viaggio.

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via Giphy

Post Scriptum

Dopo aver fatto leggere le mie memorie al mio compagno per un consiglio, ci siamo resi conto di quanto certi argomenti andrebbero sviscerati meglio e meriterebbero articoli a parte. Per esempio come avrei voluto vedere, allora, invece di Dawson’s Creek con tutto quel pathos e quella tensione a vivere la vita a duemila, un film come Paterson. Paterson è un autista di autobus che conduce una vita ordinaria, ma che ha anche una forte inclinazione alla poesia.

E poi avrei voluto anche raccontare di alcuni rimpianti che ho nella scelta del percorso di studi e di come, a vent’anni, avessi idealizzato un settore (quello del digitale) che poi, a quaranta, si è rivelato normalissimo. E io che immaginavo che mi sarei sentita la più stupida della stanza in mezzo a tanti Einstein, Oppenheimer, Fermi e Lawrence.

Di come avrei voluto darmi di meno della “stupida nella stanza”.

Ma come disse qualcuno: questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta.

Travel

Dalla Russia con amore. Un assaggio di Europa dell’Est a Roma.

La cosa più difficile, di quando scrivo, è trovare un titolo. Mi sale l’ansia che possa risultare piacione o fuorviante, come d’altronde mi mette ansia qualsiasi cosa fatta da me. Ma che dico, qualsiasi cosa punto. Stavolta, però, Dalla Russia con amore è la descrizione giusta per una giornata passata a scoprire un sottobosco di bellezze dell’Est nascoste nella capitale. Che scritto così sembra quel tour che si faceva da giovani, soprattutto se si era maschi, tra goliardia e curiosità.

Invece il mio era un goffo tentativo di dire che a Roma si può avere un assaggio di Europa dell’Est se si conosce dove andare.

O se si conoscono delle ottime guide turistiche.

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Pain De Route o il pan di via

Direi che possiamo saltare i preliminari e passare subito al sodo, come sono arrivata a conoscere una visita guidata come questa.
Tutto parte dal recente periodo in cui siamo rimasti chiusi in casa a sognare le passeggiate intorno al palazzo come se fossero mete esotiche. Attraverso una delle persone più belle che abbia avuto l’onore di conoscere ultimamente (ciao Vale, questa è per te), vengo a sapere che c’è una ragazza che organizza dei tour virtuali in zone “inusuali”.

Mi scappa una premessa: io ho dei problemi a staccarmi dall’adolescenza, nel senso che certi atteggiamenti che ho tutt’ora mi sembrano un retaggio di quell’età che non rimpiango nella maniera più assoluta ma che allo stesso tempo non voglio mollare. Per esempio l’insofferenza verso tutto ciò che è troppo sovraesposto, a quindici anni si rifiutavano le cose troppo gettonate per il bisogno di distinguersi, a quaranta mi succede per non so quale motivo. Sicuramente non per distinguermi, da cosa se sto vivendo quasi come un’eremita che limita i contatti al minimo indispensabile per non impazzire e parlare con la friggitrice ad aria?

La sto facendo lunga, mi rendo conto. Quando ho sentito nominare questa ragazza e il suo lavoro fuori dai soliti quattro che imperversano sui social, ho subito provato un moto di simpatia. Lei è Eleonora e ha un sito che si chiama Pain de Route, che sta ad indicare il pan di via elfico di Il Signore Degli Anelli. Io, che non subisco per niente il fascino della saga di Tolkien, prenoto subito con lei un tour virtuale a Tbilisi (Georgia).

Eleonora gestisce mille e una attività, tra cui l’organizzazione di viaggi nei paesi dell’Est, una destinazione che non sento spesso citare come meta preferita. Il tour a Tbilisi è stato eccezionale, nonostante tutte le limitazioni date da un evento virtuale.

La città di Tbilisi, in Georgia, ripresa dall'alto. C'è un fiume che l'attraversa, si vedono i ponti, le macchine e i tetti delle case. In lontananza ci sono delle montagne e delle nuvole compatte
Photo by giorgi gvilava on Unsplash

Rituali scaramantici pre-intervento

A ottobre scopro che Eleonora, insieme ad Alessandra di Vie di Fuga, organizza un tour proprio a Roma per far scoprire i luoghi russi della città. Sempre a ottobre mi opero di fibromi all’utero e siccome so essere anche melodrammatica, sono stata contenta di essere riuscita a fare questa esperienza pochissimi giorni prima dell’intervento.

Eleonora dal vivo risulta come mi era sembrata online: preparata, appassionata, con uno dei sorrisi più aperti e accoglienti mai visti. Forse la mia opinione su di lei è filtrata dalla stima che ho, ma ho pensato che di Eleonora si capisce subito che ha visto situazioni e luoghi molto differenti dalla nostra tutto sommato confortevole realtà.

Alessandra mi ha fatto una altrettanto bella impressione: anche lei preparata, coinvolgente nelle spiegazioni, divertente. Riesce a dare le informazioni in modo tale da farmi chiedere perché la mia professoressa di storia non fosse così. Mi sarei annoiata di meno e avrei imparato molto di più.

Due guide turistiche spiegano il motivo della visita a un gruppo di persone

Prossima fermata: Basilica di San Clemente

Il tour inizia per me e il Dottore quasi a ridosso della prima visita a causa della lunga attesa per la visita anestesiologica che avevo la mattina. Quattro imprecazioni e una secchiata di sudore dopo, arriviamo sul luogo dell’appuntamento.

Si comincia dalla basilica di San Clemente, una chiesa che chiamano “la lasagna” perché si presenta su più strati di epoche diverse. Quello che non sapevamo, tra le tante spiegazioni che ci vengono fornite, è che questo luogo ha un particolare interesse per i popoli slavi in quanto qui sono custodite le reliquie di San Cirillo.

Foto dell'ingresso della Basilica di San Clemente a Roma con chiostro interno e colonnato laterale

Io non sono religiosa, ma le storie, se ben raccontate, mi piacciono tutte e questa racconta di due fratelli (Cirillo e Metodio) che abitavano in quella che oggi conosciamo come Salonicco, in Grecia. A quei tempi la città poteva contare su una consistente presenza slava, che permise ai due fratelli di imparare quella lingua. La cosa tornò utile quando Cirillo e Metodio iniziarono l’evangelizzazione della Pannonia e della Moravia, ma c’era di più. I due presero talmente a cuore la questione della diffusione del Verbo, che inventarono l’alfabeto glagolitico, ancora oggi usato in Croazia e “padre” di quello che viene conosciuto come cirillico.
Questo e il fatto che si erano impegnati a riportare le reliquie di San Clemente a Roma, permise a Cirillo di essere accolto, alla sua morte, nella stessa basilica, che quindi è diventata un posto caro anche alla tradizione ortodossa.

Vecchia macchina da scrivere con i tasti in cirillico
Photo by Marjan Blan | @marjanblan on Unsplash

Le rocambolesche morti dei santi

Un’altra delle cose più affascinanti, per me che sono appassionata di trasmissioni sui serial killer, è stata ascoltare le terribili e anche un po’ rocambolesche morti dei santi. I santi, infatti, prima di diventarlo devono subire morti atroci e possibilmente non tirare le cuoia prima di aver affrontato più di un tentativo di assassinio. San Clemente, per esempio, è stato gettato in mare con un’ancora a lui legata perché i romani erano persone previdenti. La mia preferita, però, rimane Santa Caterina, la martire di Alessandria. Racconta la storia che durante alcuni festeggiamenti pagani, lei si rifiutò di prendervi parte perché, appunto, pagani. Lo fece con tale intelligenza e coerenza, che l’imperatore pensò che sarebbero serviti dei “capoccioni” di pari livello per convincerla a rinnegare la sua fede e le inviò un gruppo di filosofi.

I filosofi non solo non la convinsero, ma si convertirono alla sua religione. L’imperatore allora, dotato di grande pazienza, le concesse il perdono se si fosse concessa a lui. Ma quella era santa, mica scema e rifiutò. Per questo fu imprigionata senza acqua né cibo.

Il digiuno, però, su di lei fece l’effetto della maschera di Lancome che la mia amica Tamara assicura restituire una pelle da Bella Addormentata. L’imperatore gioca la carta imperatrice, pensando che magari tra donne avrebbero parlato degli effetti del digiuno sulla pelle, ma non solo la moglie non riportò Caterina sulla retta via, ma venne a sua volta convertita.


A quel punto uno avrebbe rinunciato, ma l’imperatore non era uno e quindi condannò la ragazza alla tortura della ruota dentata, la quale invece che martoriare il corpo di Caterina, si bloccò. Per caso qualcuno ebbe come un sentore che la ragazza avesse una protezione di un certo livello? Non l’imperatore, comunque, che la fece decapitare. Tutto si può dire ma non che non fosse un uomo insistente.

Dettaglio di una delle guglie di Santa Caterina Martire a Roma

Nessuno mette San Pietro in un angolo

A proposito di Santa Caterina, una delle tappe del tour è proprio la Chiesa di Santa Caterina Martire.

Come tante altre persone che abitano a Roma, conosco la città ma ci sono ancora diversi posti da scoprire. Per esempio una chiesa ortodossa che ricorda gli edifici del Cremlino alle spalle della ben più nota Basilica di San Pietro. Invece in un tripudio di bianco, oro e verde si presenta davanti a noi questa struttura che sa un po’ di Disneyland e un po’ di Piazza Rossa.

Fortuna vuole che in quel momento fosse in atto una liturgia.
Se poi si ha un po’ di fortuna e si riceve il consiglio giusto, si possono vedere le due chiese, magari al tramonto, da una prospettiva maestosa.


La parte divertente del racconto su questo edificio è che quando si decise di costruirlo, si presentava il problema che sarebbe risultato più alto della Basilica di San Pietro. Eresia! Nessuno mette San Pietro in un angolo e quindi bisognò optare per uno sbancamento del colle su cui si sarebbe eretta Santa Caterina, così da renderla meno vistosa. Insomma quella sottile rivalità tra Chiesa occidentale e quella orientale.

Un gruppo di alberi fa da cornice al primo piano della chiesa di Santa Caterina Martire a Roma. In lontananza la cupola di San Pietro

Arrivare a scoprire questa chiesa non è così banale, richiede un lungo tragitto con l’autobus e mi sembra che si siano accertati di non darle troppa visibilità altrimenti San Pietro ci rimaneva male.

Merita però la visita, da continuare lungo la Passeggiata del Gelsomino, un percorso intorno al Cupolone ricavato dallo spazio che prima era occupato da uno dei binari della ferrovia del Vaticano. Perché il Vaticano ha una ferrovia? Non diciamo sciocchezze, ovvio, è il Vaticano.

La gastronomia slava

Il nostro tour prevede ancora due soste. La prima è in una libreria di cultura russa, il Punto Editoriale, dove la coppia che l’ha aperta ci spiega le ragioni dietro alla scelta di avere un negozio a Roma rivolto a un segmento così specifico e ci lascia curiosare tra i titoli e le edizioni tanto incomprensibili, quanto affascinanti.

Interno di una libreria specializzata in testi russi. Ragazzo di spalle che indossa una maglietta nera e guarda i libri esposti

La conclusione degna della giornata è mangereccia. Ci fermiamo ad assaggiare dei prodotti tipici al Mix Markt di Roma Termini. Assaggiamo una bevanda alla betulla e il Kvass, una birra russa che sa di pane. Mangiamo cetriolini all’aneto e uova di salmone sul pane nero. La gastronomia slava ci convince talmente tanto che entriamo nel negozio a fare rifornimento. Noi in particolare ci portiamo a casa diversi prodotti, tra cui una crema di zucchine che crea dipendenza.

Foto di cibo slavo disposto sul ripiano di una cucina

Un’altra porzione di realtà

Ho partecipato a questo tour per motivi già scritti, volevo andare in sala operatoria con un bel ricordo alle spalle, tante volte fossi rientrata in quella casistica esigua di chi non ne esce più.

Non solo non sono morta, ma ho anche fatto un’esperienza bellissima da tanti punti di vista. L’organizzazione di Eleonora e Alessandra è stata impeccabile, ho scoperto un’altra faccia della mia città, ho abbracciato persone che non avevo mai incontrato dal vivo e altre che non vedevo da un po’, ho riso tanto, ho mangiato e ho delle nuove foto sul cellulare.

Soprattutto ho capito che uno dei modi per non cadere nella rete della connessione costante e del ristagno nel presente, è cercare un’altra porzione di realtà. Diversa, insolita, poco conosciuta ma che possa riempire veramente la testa di sensazioni belle e liberarla dalle zavorre mentali.

Riempitevi di bellezza

Riempitevi di bellezza, se non in prima persona magari scegliendo un altro dei miei articoli e provando a partire con la testa.

Se invece avete bisogno mettere in moto tutto, Vie di Fuga per Natale ha pensato a dei buoni regalo per partecipare ai loro tour. Invece che ridurvi all’ultimo a comprare l’ennesimo oggetto che verrà buttato alla prima occasione, questa è un’alternativa migliore.

Lifestyle

Put the fun in funeral come stile di vita

zucche, candele e delle mani che reggono qualcosa

C’è chi si impegna nella divulgazione scientifica, io metto the fun in funeral. Non lo so chi lo ha detto, è scritto su una calamita che ho comprato a New Orleans e che riassume in maniera quasi esaustiva me.

Short version per chi ha tempo ma non ha intenzione di aspettarlo e per chi proprio non ne ha: questo articolo non contiene buonumore. Allora perché leggerlo? Perché magari c’è qualcuno che come me simpatizza per la famiglia Addams e il suo approccio alla vita.

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via Giphy

Popolo di santi, opinion leader e amici di Mark Zuckerberg

Tempo fa c’è stato un malfunzionamento di tutte le proprietà di Mark Zuckerberg (per chi avesse stabilito un collegamento dal 1827, è uno dei fondatori di Facebook) e la mattina seguente la fauna mondiale rispondeva all’avvenimento con alcuni criteri.

  • Coerenza, quella che fa scrivere alla gente “quanto si è stato bene senza Facebook e Instagram” su Facebook e Instagram. Come quando vado a cena fuori due volte di seguito e annuncio che potrò bere pochissimo perché ho già dato la sera precedente e finisce con me che ballo sui tavoli;
  • Simpatia, nelle risposte di chi ci ha tenuto a sottolineare che non si era accorto del malfunzionamento perché “lavorava”. Wow, ci mancava “specchio riflesso”;
  • Acredine, di chi vorrebbe mollare tutto per aprire un baracchino di granita a Lanzarote e invece ha a che fare proprio con i social e con la capacità informatica dei clienti pari a quella di mia nonna;
  • Competenza, la dote migliore del popolo italiano. Ogni giorno un italiano si sveglia e sa che deve correre a dare la sua opinione, non importa se si tratta di carica virale, sistemi operativi o fisica quantistica. L’importante è scriverlo e far sapere di sapere.
Tifosi allo stadio che esultano
Photo by Hanson Lu on Unsplash

Scegliere di non provare nulla

Io me ne sono accorta di questo disservizio? Sì e nonostante questo sono riuscita anche a svolgere degli altri compiti. Ho provato il panico da isolamento? No. Sono stata felice dell’isolamento? Neanche.

Io non ho provato nulla, non ero né triste né felice, né coinvolta né distaccata, non me ne è fregato un emerito niente. Da qui ho ripreso una riflessione che è da un po’ che sto facendo e che vorrei essere in grado di mettere in pratica più spesso. Quando succede qualcosa, qualsiasi cosa, voglio chiedermi se mi interessa, dopodiché se conosco l’argomento, infine se voglio/posso esprimere la mia opinione, oppure condividere un pensiero che quell’avvenimento ha generato.

Come se ci fosse un’infografica

Se sapessi disegnare o usare dei programmi specifici, piazzerei adesso una bella infografica con anche dei disegnini molto carini. Ma non sono capace, quindi ecco qui uno schema artigianale fatto in casa per voi.

Succede qualcosa a livello
personale/nazionale/internazionale. Mi interessa davvero?
No. Non dico niente e vado avanti con la mia splendida vita
Succede qualcosa a livello
personale/nazionale/internazionale. Mi interessa davvero?
Sì. Ho le conoscenze per esprimere una mia opinione, oppure voglio chiedere un approfondimento, oppure questa cosa ha generato un pensiero che voglio condividere
Questo pensiero è rispettoso e/o almeno fa ridere, oppure è il solito “questo non è un aeroporto, non bisogna annunciare la partenza?”No, non dico niente e vado avanti con la mia splendida vita. Soprattutto se devo fare la battuta dell’annuncio
Questo pensiero è rispettoso e/o almeno fa ridere, oppure è il solito “questo non è un aeroporto, non bisogna annunciare la partenza?”Sì, lo è e no, non è un meme sentito e risentito, frutto di una mia incapacità di interagire con il prossimo senza doverlo schernire ogni volta. Posso parlare.

The car’s on fire and there’s no driver. Una canzone allegra

Perché ho scritto questo pilotto che non sembra azzeccarci nulla col mettere un po’ di fun in funeral?
Intanto perché ho dormito pochissime ore per via di un forte temporale che non mi ha fatto chiudere occhio. Poi perché davvero mi auguro di riuscire a intervenire nelle questioni solo quando mi interessa e non perché devo dimostrare qualcosa. Infine perché questa riflessione mi è scaturita da una canzone allegra come il parco di Salem che commemora l’uccisione per stregoneria di alcune persone.

The car’s on fire and there’s no driver at the wheel and the sewers are all muddied with a thousand lonely suicides and a dark wind blows.

The government is corrupt and we’re on so many drugs with the radio on and the curtains drawn.

We’re trapped in the belly of this horrible machine and the machine is bleeding to death

Ecco, a volte mi sento come in un’auto in fiamme e senza nessuno alla guida, intrappolata. Se non posso uscirne, almeno fatemi mettere un po’ di fun in funeral.

Lifestyle

Andare a fondo delle cose. Una guida superficiale

L'oceano dalla prospettiva di chi è dentro l'acqua

Una volta un amico mi disse: “tu non riesci ad andare a fondo delle cose, rimani in superficie”, stavamo parlando della mia tesi di laurea e lui se ne uscì con quella frase.

Da qualche parte, nei meandri della mia mente, quelle parole devono essersi annidiate e generato tanti piccoli xenomorfi di scarsa autostima. Ciò si traduce in una me bloccata costantemente in un limbo, altro che zona di sicurezza, per me nessuna zona è sicura, neanche la mia testa.

Una galleria di memorabilia a tema film di fantascienza. In primo piano una creatura aliena
Ank Kumar, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

Short version per chi non crede nelle dimensioni

Si parla del mio senso di inadeguatezza verso qualsiasi cosa, tranne il cibo e l’alcol. A mangiare e bere non mi ferma nessuno. E di Francesco Costa come nuova divinità, ma io sono atea.


Non si gioca con la scrittura

Ogni volta che penso di scrivere, queste sono le scuse che trovo e che mi impediscono di continuare:

  1. Non sono mica Steinbeck che la gente sta aspettando i miei testi;
  2. Non ho la più pallida idea di cosa significhino la metà delle voci su WordPress, il mio blog non è ottimizzato, dissinnescato, calibrato, pesato. Peggio mi sento! Non è accessibile e quindi sto sicuramente facendo un torto a qualcuno;
  3. Quello che scrivo, lo hanno già sviscerato ottantasette persone prima di me e meglio. Ma poi non vado a fondo delle cose, di che stiamo parlando?
  4. Non sostengo le aspettative, figuriamoci le critiche. Non ho abbastanza soldi per chiedere alla mia terapeuta di venire a vivere con me.

Questo ragionamento lo applico, con le dovute varianti, a qualsiasi aspetto della mia vita, soprattutto se si tratta di hobby. Anzi in quel caso divento ancora più immobile perché sento di non essere giustificata se dovessi fallire.

Il ragionamento è: non mi pagano per farlo, quindi posso evitare di farlo.

Instagram una volta era tutta campagna

Faccio un altro esempio, Instagram. Inizio a usare questo social nel 2013 per trovare un diversivo alla mia relazione di allora.

Questo avrebbe dovuto dirmi qualcosa sullo stato di salute di quella storia, ma l’informazione ci ha messo cinque anni per arrivare dal cuore al cervello. Detto ciò, ho cominciato a usarlo in maniera personale, raccontando aneddoti scemi e fatti miei. Ho conosciuto tanti posti, fatto cose, visto gente, ho tirato su un certo seguito ed è stata la mia isola felice per un sacco di anni.

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via Giphy

La sindrome dell’imbucata

Ma ecco la parte “terapia di gruppo”. A un certo punto sono stata notata da alcune persone e quelle persone devono aver pensato a loro volta che io fossi una persona valida sotto qualche aspetto.

All’inizio ero così lusingata dal fatto che personaggi di un certo ambiente mi seguissero, che con gratitudine ho iniziato ad allargare la mia cerchia a tutti loro.

Poi è arrivata l’ansia da prestazione, all’improvviso ero circondata da gente fichissima, gente nel digitale da 72 anni, attiva e operativa nelle situazioni più disparate, dal femminismo alle escursioni, dal menu settimanale agli abiti del festival del cinema di Venezia.

Ogni giorno una firma da apporre, una lotta da abbracciare, una causa per cui indignarsi, nuove divinità a cui rivolgersi.

Succede che qualcosa si rompe. Io che soffro da che ho memoria della sindrome della superficiale, di quella che deve dimostrare di meritare un invito alla festa del momento, mi sono rotta. Di testa, di entusiasmo, di energia, di scatole e ho fatto un passo indietro.

Pupazzo Lego in pezzi
Photo by Jackson Simmer on Unsplash

La divisa del liceo, vent’anni dopo

La mia terapeuta ultimamente mi ha detto di lasciare uno spiraglio aperto al mondo, credo che cominci a temere che diventi come Unabomber, con la mia casetta in qualche bosco di Rieti a progettare un attentato contro questa società che non mi ha capita.

La verità è che a me le persone piacciono, non tutte ma abbastanza, più che altro soffro la possibilità di non essere alla loro altezza.

Tempo fa ripensavo agli anni del liceo, quando frequentavo un classico molto rinomato di Roma.

Era un liceo pubblico, ma avevamo una nostra divisa, come è normale a quella età. Dr. Martens per la frangia più grunge, Clark per quella morettiana. Magliette comprate al mercato dell’usato e Barbour verde. No bomber no Fred Perry no Naj Oleari. Quella era roba da pariolini (persone della Roma bene, di una certa borghesia e orientamento politico) o fasci.

È successo che a quasi 41 anni mi sono sentita sopraffatta da una serie di meccanismi che mi riportano a un’inadeguatezza adolescenziale e la cosa più responsabile nei miei confronti che possa fare, è lavorarci su.

Memento mori: anche Francesco Costa fa la cacca

La domanda ora sorge spontanea: e al popolo di Milazzo?
Riprendo il filo da quello spiraglio che mi è stato detto di tenere aperto, pensando questo tentativo di scrittura come il mio modo di fare terapia offline e online. Ci sono tante persone che stimo che trovano la propria voce nel giornalismo attento di Francesco Costa o nelle riflessioni di cuore di Tlon, in una genitorialità sostenibile o in un’alimentazione rispettosa.

Io ringrazio per tutte queste voci che mi fanno conoscere una parte di mondo, solo che non è la mia e non è tutto il mondo, io a quarantuno anni non so che lavoro voglio fare da grande, figuriamoci se ho queste solide certezze come le Dr. Martens ai piedi della mia giovinezza.

Quando nel novembre 2019 mi sono licenziata dal “posto fisso”, mesi prima che si parlasse di generazione Yolo e l’umanità trovasse un’etichetta perché quello che non ha un’etichetta è ignoto e potenzialmente spaventoso, molte persone parlavano di me come una coraggiosa. Altre come di una privilegiata, ma di questo ne parleremo un’altra volta.

Io mi sono licenziata perché non mi sentivo più rappresentata. Quindi, caro Francesco Costa, tu sarai anche una persona eccezionale e un professionista di grande rilievo e io continuerò a leggerti (tanto ogni giorno, su Instagram, c’è qualcuno che ti condivide), ma io ora ho bisogno di altro.

Ho bisogno soprattutto degli incerti, dei pavidi, degli apolidi, delle vaschette di gelato dove invece ci sono i peperoni surgelati, dei vestiti senza etichetta che non sai se lavare a mano, con il prelavaggio, senza ammorbidente, coi fiori di Bach.

Mi riprendo il diritto di dire che una persona mi ha stufato anche se indossa le Dr. Martens come me, di averne abbastanza di chi ironizza sempre su tutto e di chi invece rende tutto epico, pure quando fa la spesa.

Mi riprendo il diritto di condividere o meno quello che mi va, se mi va, quando mi va senza paura di essere la bionda sciroccata che parla solo di argomenti frivoli.
Anche di essere quella lì e tutte le mie altre personalità.

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Ora che lo ho scritto mi sento meglio?

Beh non ho scrollato passivamente i social e non ho mangiato un pacco di patatine, buttalo via.

Si sentirà meglio qualcuno? Avrò aiutato il mondo a essere un posto migliore? Cambierò idea fra cinque minuti e mi chiuderò al bagno pensando che a 41 anni sono una fallita che non ha combinato nulla di memorabile nella vita? Lo scoprirò tra cinque minuti.

Piccola postilla pubblicità

No, non è proprio pubblicità, ma mi piaceva l’allitterazione. In questa mia fase di “rivendicazione della diversità pure se ci litigo”, condivido i nomi di due persone di cui apprezzo i contenuti che producono.

Una è Eleonora Sacco di Pain de Route, un progetto attraverso il quale fa conoscere meglio i popoli dell’Est. Con lei ho seguito un tour virtuale in Georgia, che mi ha talmente convinto da prenotarne uno dal vivo alla scoperta dei luoghi russi a Roma. Mi piace Eleonora perché mostra qualcosa di veramente diverso e perché si limita al suo campo. Dove “limitarsi” non è sinonimo di disinteresse verso il resto del mondo, ma è segno di cura e rispetto.

La seconda persona è Matteo Bordone, il cui podcast mi è stato fatto scoprire da una mia carissima amica. Non so assolutamente nulla di lui e avrei continuato a ignorarlo se non mi fosse stato indicato. È nel mucchio selvaggio dei podcast di Il Post e tratta argomenti vari con quella punta di cinismo e sorriso beffardo che non fa mai male. E ha una bella sigla.

Concludo con le parole di una sua puntata su Alessandro Barbero: questo non fa di lui un nemico del popolo e non fa di lui soprattutto un cattivo. Dietro a questa idea c’è una forma mentale di contrapposizione frontale e di schieramento continuo che ci ha abituato a prendere le persone che stimiamo e metterle nella scatola dei buoni, che è poi la scatola dei santi, perché accanto c’è una scatola nera dei cattivi e poi la scatola dei dannati.

Fino al 15 ottobre lo potete ascoltare gratis, poi diventa un contenuto (giustamente) a pagamento.

Lifestyle

Esiste una salute mentale migliore di un’altra?

tessere che formano le parole inglesi per salute mentale

La penultima volta che sono entrata su WordPress era dicembre 2020. Articoli scritti: mezzo; articoli pubblicati zero. Salute mentale: variabile in attesa di una possibile perturbazione.

Cercherò di farla meno lunga possibile, è stato un anno intenso, fatto di scelte, traslochi, crisi e io non sono brava nella gestione di questi aspetti quando avvengono nella mia vita privata. Tanto nelle questioni professionali ho la dedizione di un pilota dell’aviazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, quanto in quelle personali soccombo e tendo a fingermi morta.

Nel momento in cui sto scrivendo, l’argomento del giorno riguarda l’atleta statunitense Simone Biles che ha deciso di ritirarsi dalle Olimpiadi di Tokyo per concentrarsi sul suo benessere psicologico. Voglio spendere due parole sull’avvenimento; non solo trovo che sia un’ammissione lecita, ma, come molte persone, credo che la salute mentale sia ancora un ambito troppo poco esplorato. Rilancio pure: la salute mentale dovrebbe essere considerata qualsiasi sia la situazione che l’ha compromessa.

Mentre leggo i vari post che applaudono alla decisione di Simone Biles, mi chiedo se lo stesso effetto l’avrebbe sortito una persona qualunque che a un certo punto ammette con se stessa di non farcela più, senza nessuna pressione particolare addosso, senza pesi di alcun genere sulle sue spalle, rappresenterebbe comunque uno spunto di riflessione per qualcuno?

Non fare di me un idolo, lo brucerò

Nel 1994 usciva Ko de mondo, un album dei C.S.I. che conteneva una traccia intitolata A Tratti.

Non fare di me un idolo, lo brucerò. Se divento un megafono mi incepperò. Cosa fare non fare non lo so. Quando dove perché riguarda solo me. Io so solo che tutto va ma non va.

A parte il fatto che io potrei esprimermi quasi esclusivamente attraverso i loro testi, ma trovo particolarmente pertinente quella frase. I personaggi in vista che dichiarano le proprie emozioni negative sono un bell’esempio per chi ancora non riesce o non vuole esternare le proprie. È un buon punto di vista, ma è l’unico? E se paradossalmente mettessero ancora più ansia perché i loro crolli sono più “giustificati” di altri? Se in generale ci fosse una salute mentale di cui si può parlare e una salute mentale che non genera discussione?
Può sembrare farneticante come discorso, ma su di me, per esempio, le esperienze di persone famose hanno un effetto di condivisione minore di persone che conosco davvero. Tra le stesse persone che conosco, solo un’esigua parte è quella a cui rivelerei certe fragilità e non è una parte necessariamente composta da parenti o amici di lunga data.

Salute mentale, ma di chi?

Avevo iniziato con l’idea di scrivere del breve viaggio a Siracusa, poi mi sono resa conto che non entravo su WordPress dal 2020 e mi sono chiesta il perché. La risposta più vicina alla sincerità è: non ce la facevo e non ce la faccio più dell’indistinto brusio di cui canta Giovanni Lindo Ferretti, che non c’è niente che non vada eppure non va.

Sto a fatica abbracciando il fatto che io sto male in un modo che è mio e che posso scegliere se e come condividerlo. Sto venendo a patti che gli idoli da social mi mettono agitazione e non innescano alcun processo di identificazione. Che alcune parole e persone mi provocano rabbia, frustrazione e noia, anche quando stanno sedute dalla mia parte ideologica del tavolo. Che sdoganare il malessere è cosa buona e giusta, ma rispettarne le modalità è divino. Che il silenzio non è sempre ignavia, non siamo i commercialisti gli uni degli altri chiamati a sapere a chi va il nostro cinque per mille.

In conclusione, mi sono persa. Ero partita con un’idea e sono finita a dovermi ricordare che la condivisione non ha un’unica accezione e nessun attestato di partecipazione.

Post Scriptum

Scriverò di Siracusa, ma non è questo il giorno. Se però avete voglia comunque di evadere, c’è sempre un mio vecchio articolo su Palermo.

Polpi in mostra su un banco del mercato di Ballarò a Palermo. L'ho scelta per introdurre un mio vecchio articolo sulla città siciliana
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Racconti

Cappuccetto Rosso. Un racconto punk

Cappuccetto rosso e il lupo

Nelle puntate precedenti

Previously on “Come mai la mia vita scorre così in fretta e io ancora devo completare la casa dei miei Sims?”: fare piccoli passi ma farli, per mettere a tacere la propria ansia da prestazione. Se volete saperne di più, ne ho scritto qui.

In questo episodio

L’ultima cosa di cui avevo parlato, buoni propositi a parte, riguardava i racconti. Ora, io non mi posso definire un’esperta di racconti; qualcosa di Poe, qualcosa di Wallace, un paio di Lovecraft seppure, ma non sono il mio genere narrativo preferito.

Eppure, quando ero al liceo, io stessa ne scrivevo più di quanti ne abbia mai letti. Li scrivevo sui diari altrui, nelle lettere, sulle agende, per poi dimenticarmene e lasciarli lì, a imperitura memoria.

Se nel frattempo avessi continuato a scrivere, come tanta gente mi consigliava, e fossi diventata un’autrice affermata, adesso ci sarebbero persone con un possibile tesoro tra le mani: un racconto originale firmato da Agnese Iannone. Purtroppo, del senno di poi son piene le fosse; io non ho mai finito (né cominciato) quel libro famoso e di quei racconti ho perso la traccia.

Ultimamente, però, mia sorella ha ritrovato un’email che riportava una mia breve storia, il remake di Cappuccetto Rosso da una favola di Charles Perrault scritta per il master che, all’epoca, stavo frequentando. Quello del master è stato uno dei periodi più vivi creativamente parlando e, a volte, mi chiedo se io non funzioni meglio da studentessa che da professionista. Ma su questa cosa del dovere che schiaccia di sensi di colpa la fantasia, magari ne parliamo in un altro articolo. O magari no, quando si tratta di me, mi distraggo facilmente.

Libro di favole aperto su un tavolo

Cappuccetto Rosso

Mi chiamano Cappuccetto Rosso.
Vivo con mia nonna da quando mio padre è agli arresti. Di mia madre non so più niente e comunque non ricordo nulla.
Se lei fosse rimasta forse la mia vita sarebbe stata diversa, avrei fatto colazione sarei andata a scuola e tutte quelle cose lì che passano in televisione.
La televisione l’ho rubata, quindi non conosco altra vita che questa, e oggi mi tocca anche lasciarla perché ho ammazzato un uomo e quando ammazzi un uomo in questa vita devi scappare.
Non è la polizia a preoccuparmi, è il branco che mi fa paura. Quelli della polizia qui li chiamiamo i cacciatori, girano per le strade e controllano le case, ma il più delle volte fanno solo un gran rumore e non beccano mai nessuno.
Il branco si muove silenzioso, a volte ti imbatti in un membro da solo e pensi sia fatta, di poterne eliminare almeno uno, ma all’improvviso ti sono addosso tutti gli altri. Il branco è famelico.
Stamattina ho messo su la felpa e tirato il cappuccio sulla testa per coprire i capelli biondi, è un colore che da queste parti attira l’attenzione.
Sono uscita per cercare da mangiare, la nonna è troppo vecchia per occuparsi di me, ora sono io che mi occupo di entrambe.
Sono tornata salendo le scale a due a due, veloce perché il branco gira, e l’ho trovato lì, il sadico, a parlare con la nonna.
Le parlava, il bastardo, le spiegava lentamente e con le lame sottolineava le parole.
Ho sparato.
Mia nonna è la mia famiglia, anche se è vecchia ed è un peso ormai, è l’unica che mi intreccia i capelli biondi.
Ma adesso andiamo, nonna, il buio si allunga sulle strade e sento già il loro fiato sul collo.

E vissero felici e contenti?

Non lo so, forse ci sarà un sequel della bionda Cappuccetto Rosso che cammina nell’ombra facendosi scudo per l’anziana nonna. Oppure sarà la volta dell’eroinomane Aurora in La Bella Addormentata nel Chiosco. Nel frattempo ci lasciamo con una frase di Perrault stesso:

Da questa storia si impara che i bambini, e specialmente le giovanette carine, cortesi e di buona famiglia, fanno molto male a dare ascolto agli sconosciuti; e non è cosa strana se poi il Lupo ottiene la sua cena. Dico Lupo, perché non tutti i lupi sono della stessa sorta; ce n’è un tipo dall’apparenza encomiabile, che non è rumoroso, né odioso, né arrabbiato, ma mite, servizievole e gentile, che segue le giovani ragazze per strada e fino a casa loro. Guai! a chi non sa che questi lupi gentili sono, fra tali creature, le più pericolose!

Occhio alle creature gentili, controllate che sotto non ci sia un lupo.

C'è una casa in un bosco, è buio. una ragazza con un mantello rosso sta amminando verso la casa e un lupo la osserva
Lifestyle

Di buoni propositi, piccoli passi e MVP

A luglio di questo anno mi è arrivata la solita email di Aruba che mi avvertiva del dominio in scadenza. Io non scrivo più qui da febbraio o marzo, ma ho pagato diligentemente il mio obolo per la stesso motivo per cui, ogni anno, provo ad affidarmi a qualcuno che mi faccia perdere peso. Li possiamo chiamare buoni propositi.

Oppure senso di colpa, una sorta di lettera scarlatta invisibile che mi ricorda a cadenza regolare quello che potrei fare e che, invece, scelgo di non fare. Seguire un’alimentazione corretta, per me che ho problemi con la tiroide e ho familiarità con malattie metaboliche, è quasi un imperativo. Senza contare che, quest’anno, per la prima volta dopo tante oscillazioni di peso, non mi entra la maggior parte dei miei vestiti. Non mi era mai capitato: per quanto prendessi o perdessi peso, sempre quella taglia mi entrava, a volte con più fatica, a volte come un guanto.

Il concetto di Minimum Viable Product

Fatto sta che ieri (o forse l’altro ieri, non lo so, ho già perso il filo del discorso) ho letto un post su Instagram di una ragazza che seguo con piacere, Tamara Viola, che stilava un elenco di “buoni propositi”, o meglio di cose da fare/da provare a fare per migliorare la sua vita. Tra i vari punti, c’era smettere di pensare troppo e agire di più, provare a fare piccoli passi, anche microscopici, ma farli. Che è una di quelle cose che potremmo far finire nella categoria “grazie al cazzo”, ma che invece ogni tanto vanno ricordate. Anzi, di solito succede che, se un’altra persona dichiara di sentirsi come me, io mi sento meno inadeguata.

Insomma, un po’ di questo e un po’ di quello, mi hanno portato a riprendere in mano il concetto di MVP. Dice che è? La faccio semplice perché se no finisce che mi distraggo e smetto di scrivere per altri sei mesi. Dicesi MVP, o minimum viable product, il prodotto minimo funzionante che andrebbe tirato fuori per testare la bontà della propria idea. La sto riducendo all’osso, ma lo farò ancora di più. Invece che arrovellarsi se un prodotto o servizio piaceranno, perdendoci sopra anni di vita per ipotizzare ogni scenario possibile e ridurre le perdite, sarebbe opportuno uscire con una versione del prodotto/servizio base per cominciare a testare se praticamente può funzionare.

Meno male che la dovevi fare breve

Mi sento come una persona anziana a cui si chiede di raccontare un aneddoto e quella inizia dal Big Bang. Tornando al mio caso specifico, cosa posso fare di pratico per capire se vale la pena continuare a scrivere, oltre a pagare il dominio per senso di colpa?

Scrivere, appunto. Al di là delle opinioni altrui, su cosa genera revenue nel 2020 e cosa no (bello eh, non sapevo dove ficcarlo e ho deciso che qui ci stava proprio bene). Se sia opportuno tenere un blog oggi, se questa è la società dell’immagine, dei video, degli slogan, di “tanto la gente non legge più”. Ecco, ogni tanto mi ricordo che queste opinioni non vivono con me, non si chiudono la porta alle spalle la sera e si siedono sul divano con me. L’unica persona che lo fa, perché con me ci vive veramente, è il Dottore, la cui frase preferita, dopo “ti amo”, è “perché non stai scrivendo?”.

Daje con i propositi di settembre

In realtà avevo iniziato questo articolo pensando di condividere un racconto che ho scritto tanti anni fa e che mi piace ancora. Sono finita a parlare di altro, ma per oggi il mio MVP l’ho tirato fuori. In più mi è rimasta ancora la carta “racconto” per un prossimo articolo. Magari se salgo sulla bilancia scopro che ho perso un etto. E come propositi per questa prova generale di anno nuovo, mi sembra che ci siamo.

Travel

BTO. Buy Tourism Online. Parte II

Negli episodi precedenti, ho approfondito cosa fosse il BTO e quali i suoi concetti chiave. In questa seconda parte mi concedo ancora alcune considerazioni sull’evento prima di dichiararlo definitivamente chiuso.

Ci siamo lasciati parlando dell’importanza della formazione e del coinvolgimento delle persone quando si vuole che un cambiamento generi valore. Ma come si può fare tutto questo senza utilizzare prima di tutto uno strumento tanto efficace quanto spesso relegato in un angolo come l’ascolto?

Su questo argomento è basato l’intervento di altre due divinità del mio (e non solo) Olimpo professionale: Alessandra Farabegoli e Miriam Bertoli, entrambe nel settore del digital marketing, entrambe fondatrici di una delle migliori scuole di formazione che abbia frequentato negli ultimi anni: la Digital Update.

Cosa vuol dire saper ascoltare? Intanto che la prima cosa da ricordare quando ci troviamo di fronte a un cliente, è che noi non siamo il nostro cliente. Per quante affinità possano esistere, non potremo mai sostituire il nostro pensiero al suo; di qui l’esigenza di avvicinarci a ogni persona con umiltà, curiosità ed empatia, affinché si possa non solo costruire un rapporto di fiducia (e qui torna il concetto di coinvolgimento), ma soprattutto un’esperienza gratificante e cucita su misura per il nostro cliente.

Durante il discorso di Daniele e Jacopo sull’innovazione nei processi aziendali, veniva sottolineato come non esistano formule che stanno bene un po’ su tutto. Lo stesso concetto viene ribadito qui: se vogliamo attrarre, convincere e possibilmente far rimanere i nostri clienti, dobbiamo individuare delle strategie personalizzate e, per farlo, dobbiamo porre le giuste domande e utilizzare con cura le risposte.

Il concetto di personalizzazione, che permea un po’ tutto l’evento, viene ribadito durante un altro interessantissimo panel a cura di Barbara Sgarzi, una consulente che da anni si occupa di formazione digitale alle aziende. Il suo intervento si intitola “Dai social in cantina e viceversa” e dove si parla di vino, io mi sento chiamata in causa.
Anche Barbara sottolinea l’importanza dell’ascolto come strumento per ottenere una comunicazione personalizzata ed efficace.

Attenzione, l’ascolto non è solo verso l’esterno (genericamente il cliente) ma anche verso l’interno; vuol dire prima di tutto ascoltare se stessi per poter proporre qualcosa di veramente valido. Lei sostiene, per esempio, che se non si ha niente da dire, è inutile essere presenti su qualsiasi piattaforma tanto per fare presenza rischiando una ridondanza di contenuti. Meglio avere una strategia mirata e precisa che tenga conto anche di chi siamo e di cosa vogliamo dire. L’ascolto, quindi, deve partire prima di tutto da noi stessi. Barbara ci mostra con degli esempi pratici quanto appena spiegato, riportando due storie rispettivamente di successo e insuccesso. Nel caso di ATM Milano, l’azienda è riuscita a costruire un profilo Instagram seguito, grazie alla capacità di coinvolgere i suoi utenti attraverso un hashtag dedicato: le foto dei passeggeri che avessero usato quell’hashtag, sarebbero state condivise sull’account ufficiale dell’azienda. ATM ha tirato su una comunicazione coinvolgente, basata prima di tutto su una consapevolezza interna: un sistema di trasporti che funziona davvero. Secondo caso, quello del Dipartimento di Polizia di New York che avrebbe voluto “ammorbidire” la figura del poliziotto, invitando gli utenti a condividere le foto del loro cop di quartiere. Peccato che fosse il periodo di Occupy Wall Street e le persone inferocite avessero cominciato a pubblicare le immagini dei poliziotti impegnati a picchiare i manifestanti.

Cosa ci insegna tutto questo? Che prima di proporre un qualsiasi piano di comunicazione a qualcuno, bisogna conoscere a fondo una serie di elementi: dalla propria identità, al contesto, fino ad arrivare alle richieste del cliente.

Arrivata alla seconda giornata del BTO, questo è ciò ho imparato: la necessità di “tornare umani” per capire cosa offrire, come offrirlo e perché offrirlo. Come ogni epoca, anche la nostra sta attraversando dei cambiamenti che possono migliorare l’esperienza del singolo se, attraverso uno sforzo collettivo, riusciremo a comprendere come utilizzare tutta questa mole di informazioni.


Ho sentito serpeggiare un brivido di terrore durante il panel sul food delivery e di come questo fenomeno stia cambiando le nostre abitudini di consumo, a tal punto che un giorno la struttura della nostra casa cambierà perché non avremo più l’esigenza di cucinare. Un disturbo nella forza di fronte alla possibilità che noi italiani potremmo non avere più una cucina o non così come la conosciamo. Ma stiamo scherzando? Quale parte di “cibo” non è chiara nella parola “italiani”?


Proprio noi che siamo pronti alla guerra santa quando si tratta di difendere i veri valori del Paese, tipo il pecorino nella carbonara, dimenticandoci che tutto può evolvere e che tradizione non è necessariamente sinonimo di bontà. Questi concetti sono stati ampiamente discussi durante il panel dal titolo “Cibo ambasciatore dell’Italia nel mondo”, dove si rimarca ancora una volta che essere autentici, non vuol dire rifiutare di essere innovativi. Si può e si deve, per esempio, dare spazio alle nuove generazioni e alla loro visione del cibo. 

Più in generale si può e si deve essere aperti al cambiamento, perché, come dice Paolo Marchi ( vicepresidente Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto) citando Gualtiero Marchesi, c’è differenza tra un piatto buono e un piatto cucinato bene. 

Ecco che torna il concetto di cambiamento e di come affrontarlo in maniera positiva. C’è sempre un po’ di sospetto quando si parla di questo argomento, soprattutto quando si arriva al modo in cui le informazioni (utili per innescare un cambiamento) vengono prese, dove vanno a finire, come vengono usate.

È un argomento estremamente delicato su cui non ho una conoscenza così strutturata da farmi prendere posizione. Quello che penso è che se queste possono aiutarmi a vivere una quotidianità davvero più facilitata, più consapevole e più personalizzata ne sarei davvero molto lieta.

Durante questo evento incentrato sul turismo ho ascoltato tante realtà che già operano in questa direzione, allo scopo di offrire a chiunque un’esperienza adatta alle sue esigenze. So che ci sono ancora tanti che non sanno come indirizzare questi dati e contribuiscono a trasmettere una visione del mondo in cui qualcuno sta solo cercando di venderti un prodotto o un servizio, senza mai offrire qualcosa in cambio.

Mi sono entusiasmata di fronte ad alcuni interventi, mentre altri mi hanno lasciata del tutto indifferente. Mi sono ricordata quanto è bello essere bombardati da così tante informazioni e quanto poi è difficile metterle in ordine. Ho rivisto tante persone incontrate negli anni e nelle situazioni più disparate, con alcune ho brindato a questi incontri, con altre ho brindato due volte.

Ho mangiato gli affettati toscani, i formaggi, ho portato un bacione a Firenze e sono stata ricambiata.

Dopo due giorni fitti, finisce la mia esperienza al BTO. Ringrazio chi ha coordinato il social media team senza mai perdere la rotta (la fiera Annalisa Romeo), i miei compagni di ventura e tutta l’organizzazione che ha reso possibile questo evento.

Al prossimo racconto.



Travel

BTO. Buy Tourism Online. Parte I

Questo, per me, è un periodo particolarmente denso e mentre lo scrivo penso che tutti i periodi mi sembrano così, ma è vero finché non ne arriva uno più potente, come l’amore o il mal di denti.

E questa per me è una delle fasi più intense che ricordi, per lo meno emotivamente. Assomiglia a tutti gli effetti a una fase di rinascita, di quelle che si propongono all’incirca alla fine di ogni anno, quando si sente il bisogno di tirare le somme anche quando si fa finta di no. Ma sto già perdendo il filo.

Il 2020 è iniziato con cari amici che hanno dato alla luce una persona nuova di zecca e altri che stanno dando alla luce una nuova versione di loro stessi dopo aver attraversato il ciclone del dolore ed esserne usciti divisi, diversi. È iniziato con serie tv da vedere, biglietti del treno fatti, alberghi prenotati e workshop strutturati così bene da essere quasi commoventi.

In tutto questo ci sono io, che alla domanda “ma tu di che cosa ti occupi?”, vorrei rispondere che mi occupo di me stessa. 

Ho scoperto che occuparsi di se stessi è un lavoro che andrebbe retribuito data la complessità dei compiti da affrontare. Per esempio stamattina, prima di mettermi seduta davanti al pc, mi sono alzata, ho fatto colazione con il Dottore e molto responsabilmente mi sono ficcata nuovamente a letto. Semplicemente non avevo voglia di affrontare il mondo, avevo avuto una notte agitata per via di una serie tv (Sherlock se ve lo state chiedendo) e ho ritenuto che la vita potesse aspettare qualche ora prima di cominciare.

Sulle difficoltà di una vita da ricominciare a 39 anni, sull’orologio biologico che ticchetta nonostante l’era del digitale ne parleremo in un altro articolo, dal momento che tutta questa premessa era per introdurre l’argomento principale. In questo periodo di grandi scombussolamenti, ho trovato anche il modo di partecipare a una cosa divertente che spero farò ancora (semicit da David Foster Wallace): il BTO, il Buy Tourism Online.

Qualche tempo sono venuta a sapere tramite amici che erano aperte le selezioni per il social media team di questa manifestazione e con la grande stima di me che ho su certi aspetti, ho partecipato ma senza grande convinzione.

La conoscete la sindrome dell’impostore? Quella per cui non ci si sente mai abbastanza qualificati o legittimati in una cosa che si sta facendo, anche se si è persone di successo? Anzi soprattutto se lo si è. Molte persone che conosco, brillanti, professionalmente stimate, ne soffrono. Figuriamoci io che a 39 anni ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato quanto mi sentissi in grado di affrontare quell’esperienza.

Solo che contemporaneamente a quella sindrome, ne soffro di un’altra che chiameremo del “pare brutto” che arriva dalla mia educazione familiare.

Lasciare qualcosa nel piatto non si fa, pare brutto.

Rifiutare un invito cortese, pare brutto.

Mandare a quel paese i vicini di casa, pare brutto.

Non partecipare alle selezioni di un evento che si preannuncia interessante, più che brutto pare da idioti.

Quindi se da una parte pensavo di dover partecipare perché tutto sembrava gridarlo, dall’altra mi dicevo che tanto sarebbe stato un buco nell’acqua. Naturalmente, più è alto il terrore che una cosa si verifichi, più è alta la probabilità che questa avvenga. E io ero abbastanza intimorita nel dovermi confrontare con un evento del genere per la prima volta.

CHE COS’È IL BTO – Facciamo un po’ di ordine. Dopo aver scritto ampiamente delle mie paure, perplessità e fisime, sarà bene chiarire meglio cosa è il BTO e cosa ho fatto io durante la manifestazione.

Come ho anticipato prima, si tratta di un evento sul turismo in cui addetti del settore e non si interrogano e discutono di innovazione e ospitalità. L’evento è alla sua dodicesima edizione e quest’anno il tema era il “manifesto onlife”, uno studio condotto da 13 esperti di discipline diverse (antropologia, neuroscienze e altro ancora). La Commissione Europea, infatti, ha stabilito alcuni obiettivi di crescita per la UE da raggiungere entro il 2020 e tra questi obiettivi c’è anche quello digitale. Cerco di riassumere in maniera anche a me comprensibile cosa c’entra tutto quello che sto dicendo con il BTO. Abbiamo quindi detto che la Commissione Europea fissa degli obiettivi che necessitano di un programma e di una serie di azioni volte a realizzarlo. Una delle macroaree è quella digitale, uno dei programmi è quello di migliorare la consapevolezza dei cittadini europei nei confronti di quest’area e una delle azioni è stata la creazione del Manifesto Onlife che vuole aiutare a cercare la risposta alla domanda “cosa vuol dire essere umani in un’era iperconnessa?” (se avete dubbi, perplessità o semplicemente non mi avete capita, opzione probabile, leggete la riflessione di Maria Cristina Tortorelli  sull’argomento).

Facendo finta che fin qui sia tutto chiaro, anche il settore travel si interroga sulle possibili implicazioni di quest’era digitale e sulla necessità di nuovi modelli cognitivi che aiutino a riportare il focus sull’essere umano, che in quest’era deve viverci.

IL SOCIAL MEDIA TEAM  – Un evento del genere richiama un bel po’ di gente e può essere raccontato sotto differenti punti di vista. Io sono stata scelta per farlo attraverso il canale social che più uso (Instagram) e con il mio stile narrativo. Questo è stato uno dei motivi per cui mi sono candidata come parte del progetto; più spesso di quanto vorrei, mi capita di vedere/ascoltare/leggere una comunicazione piatta, asettica o anche solamente priva di qualsiasi personalizzazione. Ed ero certa che in una manifestazione che ha al suo centro le persone, avrei avuto la possibilità di realizzare qualcosa che sentissi mio.

Quello che segue, quindi, è il racconto di come io ho vissuto questi due giorni di fiera.

GIORNO UNO – Arrivo il giorno stesso dell’evento, provata dalla sera prima in cui avevo fatto tardi per accompagnare Alessio e un nostro amico al concerto dei Dream Theater.

Neanche il tempo di lasciare la valigia in albergo, che vengo catapultata nella centrifuga del BTO. La struttura che ospita l’evento è la stazione Leopolda, la prima stazione ferroviaria di Firenze costruita nel 1848, in cui, sfruttando lo sviluppo architettonico orizzontale, sono state ricavate sei hall per la bellezza di 180 speaker.
Immaginavo che sarebbe stato faticoso seguire i vari panel, ma non avrei saputo quantificarne la dimensione. Ora lo so: tanto. Immaginate spostarsi per le diverse sale, con un intervallo di dieci minuti tra gli interventi, e seguire argomenti diversi tra loro senza buttarsi per terra a piangere finché mamma non vi prende in braccio.

Il BTO inizia con il discorso di apertura del suo direttore scientifico, Francesco Tapinassi, che introduce il leitmotiv dell’evento, la necessità di riportare al centro di ogni strategia l’elemento umano. È in un’epoca come questa, a mio avviso, che bisogna ripensare al rapporto uomo-macchina non riducendolo all’immagine straniante di HAL 9000 (sapete no, le macchine prenderanno il sopravvento e moriremo tutti dopo un periodo di tirannia sotto di esse), ma capendone le potenzialità.

Cosa che, ancora, non viene fatta nella sua totalità. Da una parte in maniera del tutto comprensibile se pensiamo a quanto tra i comuni mortali (quindi non scienziati, non professionisti, parlo proprio dei miei genitori o anche di me) non sia così chiara la velocità con cui una tecnologia arriva nel quotidiano. Per esempio, la mia famiglia ora legge le recensioni su Tripadvisor ancora prima di prenotare un ristorante; quando è successo? Soprattutto quando è diventato così automatico farlo?

Dall’altra parte, proprio per evitare quell’effetto Grande Fratello in cui dei non meglio specificati poteri forti ci vogliono solo spiare, bisogna affrontare il cambiamento in termini di educazione.

Questa è una delle cose che mi ha colpito del primo panel “Innovazione e hospitality: quali leve per la competitività del turismo in Italia”.

Mi fermo per una doverosa premessa, che ho già anticipato qualche riga sopra: questo è il mio racconto del BTO, i personaggi che mi hanno colpito, le idee che mi hanno stimolato e niente di tutto questo ha la pretesa di essere la guida ufficiale dell’evento. Solo su LinkedIn, cercando per contenuti, ho trovato tanti di quegli articoli per cui ho pensato: “mado’ ma a parte mamma chi lo legge questo post?”.

Ebbene, fosse anche solo per mamma, questo BTO mi ha insegnato che l’educazione parte dal singolo, perché siamo noi tutti che partecipiamo a questa rivoluzione e quindi bisogna essere parte attiva di questa alfabetizzazione digitale.

RIEPILOGONE PER I PIÙ PIGRI – Il BTO è una manifestazione sul turismo che ha alla base il concetto di innovazione applicato all’hospitality. Quest’anno il tema era “onlife”, come riportare al centro della rivoluzione digitale l’essere umano. Prima di tutto educandolo, rendendo le risorse accessibili e continuando a formare le risorse. La resistenza al cambiamento, se fine a se stessa, diventa solo controproducente.

Torniamo quindi al panel e ai concetti che ho sentito più vicini. Come ho detto la necessità di formare un settore (quello del turismo) che da solo copre il 13,2% del PIL ma che ancora incontra difficoltà a evolversi del tutto, da parte di chi in quel settore ci lavora.

Io che sono una grandissima fan della formazione, ancora mi sorprendo da quanto questa non venga considerata ancora una leva fondamentale. Se fossi a capo di un’azienda, obbligherei il personale a tutti i livelli a fare formazione almeno una volta l’anno. Ma ricordiamo che io non sono un’azienda, altrimenti non avrei mai accettato le dimissioni di una dipendente come me. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo un’altra volta.

Accanto alla leva formazione, c’è anche la leva tecnologica intesa come accesso migliorato e disponibile per tutti a un sistema di risorse. Quindi se vogliamo che le persone perfezionino le proprie competenze, dobbiamo permetterglielo.

La cosa che mi ha sorpreso, anche se ripensandoci è stata una reazione sciocca, è l’aver scoperto che ci sono personaggi, nei settori più disparati, che hanno lo stesso appeal che a 13 anni avevano su di me i gruppi grunge. Fino a un certo punto della mia vita, ho considerato come rockstar solo chi aveva una chitarra in mano, poi chi aveva una penna e poi una telecamera, una macchina fotografica, fino ad arrivare a chi scrive codice informatico. Quando ho iniziato a lavorare in una start up, ho avuto la rivelazione che anche il mondo informatico nascondeva le sue celebrità e con una mi ci sono anche fidanzata.

Io, una bionda, che ha scelto il liceo classico per limitare l’incidenza delle materie scientifiche (alle future generazioni, non è vero! Anche lì c’è matematica e fisica e chimica, quindi scegliete il classico per altri e più nobili motivi). Dicevamo, io, a un certo punto, ho scoperto che se raccontato bene, qualsiasi argomento può affascinarmi.

Ho fatto questa premessa per due motivi: intanto per ricordare al mondo l’importanza del racconto, che sia scientifico o di tutt’altro genere, ma che sia ben fatto perché solo così si superano certe barriere. Il secondo motivo è che al panel successivo incontro quelle che diventeranno tra le mie celebrità preferite di tutto il BTO. L’intervento è incentrato sull’innovazione nei processi aziendali e lo conducono Rodolfo Baggio (Professore Master in Economia del Turismo alla Bocconi), Jacopo Romei (consulente strategico) e Daniele Radici (founder di InnovationLab).

Probabilmente vent’anni fa tutte le loro parole mi avrebbero annoiata fino alla morte, oggi li seguo con devozione. Jacopo ai limiti dello stalking, ma non ci posso fare niente se tiene dei workshop bellissimi!

Qualche riga sopra ho scritto che affinché le persone aumentino le proprie competenze, deve essere accessibile la formazione, perché a volte sono proprio le risorse umane a porre un freno ai cambiamenti nei processi aziendali. Quindi torna l’argomento “persona” anche nel talk di Jacopo e Daniele, che insistono sull’elemento partecipativo di tutto il team affinché si realizzino cambiamenti che portino valore.

Proprio perché vengo da un ambiente in cui la parola “innovazione” era tra le più usate, ho sentito il loro discorso come immagino si siano sentiti i pastorelli di Fatima quando la Madonna gli ha parlato. Perché innovare senza davvero cambiare non porta a un risultato reale.
Quando dico che una cosa, se ben raccontata, incontra il mio interesse, intendo che quella stessa cosa posso applicarla in vari campi. Il mio errore più grande è stato pensare per compartimenti stagni e relegare certi argomenti a un’area più nerd, dove possono entrare solo pochi eletti. Un errore che vedo fare anche ad altri allontanando tante persone da settori di grande fascino.

Riporto la definizione di innovazione che Jacopo e Daniele hanno ripreso dall’Oxford Dictionary e che afferma più o meno come innovare significa apportare cambiamenti a qualcosa di già esistente, attraverso nuovi metodi, idee o prodotti. Bene. Diciamo che vogliamo applicare la stessa definizione in un rapporto di coppia che sta attraversando una fase di crisi. Qual è la frase più usata? Bisogna cambiare qualcosa. Quindi la coppia si impegna apportando delle novità, magari una scuola di ballo, una vacanza, lezioni di cucina. Ma perché questo generi valore e quindi la storia vada avanti, le persone devono sentirsi coinvolte, altrimenti meglio abbandonare il progetto.

Facciamo un altro esempio più calzante sul turismo (che farà in seguito un’altra rockstar come Massimo Canducci, Chief Innovation Officer presso Engineering). In particolare concentriamoci sulle prenotazioni e sul modo in cui di solito le facciamo. A seconda che si tratti di un biglietto del treno o di un aereo, abbiamo varie opzioni. Ma in questo processo, possiamo apportare un cambiamento che genera più valore, magari facendoci risparmiare tempo e situazioni spiacevoli. L’altro giorno dovevo prendere i mezzi per andare a Roma: sono uscita tutta contenta pensando di comprare i biglietti dal tabaccaio, peccato che quello più vicino fosse chiuso e il treno sarebbe passato di lì a poco. Ok, faccio i biglietti online e passo i restanti dieci minuti rivolgendomi a santità varie perché in quel punto la rete va e viene. Quanto sarebbe stato bello, veloce e meno blasfemo se avessi potuto fare tutto a casa tramite Alexa, con una connessione Wi-Fi stabile?

Ritornando e concludendo questo discorso, torna sempre la centralità dell’essere umano che può e deve introdurre dei cambiamenti, avendo la possibilità di accedere alle risorse per farlo e sentendosi coinvolto a farlo.

RIEPILOGONE PARTE SECONDA – Si pronuncia tanto la parola innovazione come se questa da sola fosse in grado di generare valore, come se lo fosse essa stessa. Ma innovare non significa aggiungere funzionalità a un processo e il gioco è fatto, perché, come ci ricordano durante il BTO, non esistono formule precotte che vanno bene per tutti e soprattutto non esiste cambiamento che non richieda il coinvolgimento di quanti a questo cambiamento devono partecipare.

To be continued (che s’è fatta una certa)…