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Dalla Russia con amore. Un assaggio di Europa dell’Est a Roma.

La cosa più difficile, di quando scrivo, è trovare un titolo. Mi sale l’ansia che possa risultare piacione o fuorviante, come d’altronde mi mette ansia qualsiasi cosa fatta da me. Ma che dico, qualsiasi cosa punto. Stavolta, però, Dalla Russia con amore è la descrizione giusta per una giornata passata a scoprire un sottobosco di bellezze dell’Est nascoste nella capitale. Che scritto così sembra quel tour che si faceva da giovani, soprattutto se si era maschi, tra goliardia e curiosità.

Invece il mio era un goffo tentativo di dire che a Roma si può avere un assaggio di Europa dell’Est se si conosce dove andare.

O se si conoscono delle ottime guide turistiche.

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via Giphy

Pain De Route o il pan di via

Direi che possiamo saltare i preliminari e passare subito al sodo, come sono arrivata a conoscere una visita guidata come questa.
Tutto parte dal recente periodo in cui siamo rimasti chiusi in casa a sognare le passeggiate intorno al palazzo come se fossero mete esotiche. Attraverso una delle persone più belle che abbia avuto l’onore di conoscere ultimamente (ciao Vale, questa è per te), vengo a sapere che c’è una ragazza che organizza dei tour virtuali in zone “inusuali”.

Mi scappa una premessa: io ho dei problemi a staccarmi dall’adolescenza, nel senso che certi atteggiamenti che ho tutt’ora mi sembrano un retaggio di quell’età che non rimpiango nella maniera più assoluta ma che allo stesso tempo non voglio mollare. Per esempio l’insofferenza verso tutto ciò che è troppo sovraesposto, a quindici anni si rifiutavano le cose troppo gettonate per il bisogno di distinguersi, a quaranta mi succede per non so quale motivo. Sicuramente non per distinguermi, da cosa se sto vivendo quasi come un’eremita che limita i contatti al minimo indispensabile per non impazzire e parlare con la friggitrice ad aria?

La sto facendo lunga, mi rendo conto. Quando ho sentito nominare questa ragazza e il suo lavoro fuori dai soliti quattro che imperversano sui social, ho subito provato un moto di simpatia. Lei è Eleonora e ha un sito che si chiama Pain de Route, che sta ad indicare il pan di via elfico di Il Signore Degli Anelli. Io, che non subisco per niente il fascino della saga di Tolkien, prenoto subito con lei un tour virtuale a Tbilisi (Georgia).

Eleonora gestisce mille e una attività, tra cui l’organizzazione di viaggi nei paesi dell’Est, una destinazione che non sento spesso citare come meta preferita. Il tour a Tbilisi è stato eccezionale, nonostante tutte le limitazioni date da un evento virtuale.

La città di Tbilisi, in Georgia, ripresa dall'alto. C'è un fiume che l'attraversa, si vedono i ponti, le macchine e i tetti delle case. In lontananza ci sono delle montagne e delle nuvole compatte
Photo by giorgi gvilava on Unsplash

Rituali scaramantici pre-intervento

A ottobre scopro che Eleonora, insieme ad Alessandra di Vie di Fuga, organizza un tour proprio a Roma per far scoprire i luoghi russi della città. Sempre a ottobre mi opero di fibromi all’utero e siccome so essere anche melodrammatica, sono stata contenta di essere riuscita a fare questa esperienza pochissimi giorni prima dell’intervento.

Eleonora dal vivo risulta come mi era sembrata online: preparata, appassionata, con uno dei sorrisi più aperti e accoglienti mai visti. Forse la mia opinione su di lei è filtrata dalla stima che ho, ma ho pensato che di Eleonora si capisce subito che ha visto situazioni e luoghi molto differenti dalla nostra tutto sommato confortevole realtà.

Alessandra mi ha fatto una altrettanto bella impressione: anche lei preparata, coinvolgente nelle spiegazioni, divertente. Riesce a dare le informazioni in modo tale da farmi chiedere perché la mia professoressa di storia non fosse così. Mi sarei annoiata di meno e avrei imparato molto di più.

Due guide turistiche spiegano il motivo della visita a un gruppo di persone

Prossima fermata: Basilica di San Clemente

Il tour inizia per me e il Dottore quasi a ridosso della prima visita a causa della lunga attesa per la visita anestesiologica che avevo la mattina. Quattro imprecazioni e una secchiata di sudore dopo, arriviamo sul luogo dell’appuntamento.

Si comincia dalla basilica di San Clemente, una chiesa che chiamano “la lasagna” perché si presenta su più strati di epoche diverse. Quello che non sapevamo, tra le tante spiegazioni che ci vengono fornite, è che questo luogo ha un particolare interesse per i popoli slavi in quanto qui sono custodite le reliquie di San Cirillo.

Foto dell'ingresso della Basilica di San Clemente a Roma con chiostro interno e colonnato laterale

Io non sono religiosa, ma le storie, se ben raccontate, mi piacciono tutte e questa racconta di due fratelli (Cirillo e Metodio) che abitavano in quella che oggi conosciamo come Salonicco, in Grecia. A quei tempi la città poteva contare su una consistente presenza slava, che permise ai due fratelli di imparare quella lingua. La cosa tornò utile quando Cirillo e Metodio iniziarono l’evangelizzazione della Pannonia e della Moravia, ma c’era di più. I due presero talmente a cuore la questione della diffusione del Verbo, che inventarono l’alfabeto glagolitico, ancora oggi usato in Croazia e “padre” di quello che viene conosciuto come cirillico.
Questo e il fatto che si erano impegnati a riportare le reliquie di San Clemente a Roma, permise a Cirillo di essere accolto, alla sua morte, nella stessa basilica, che quindi è diventata un posto caro anche alla tradizione ortodossa.

Vecchia macchina da scrivere con i tasti in cirillico
Photo by Marjan Blan | @marjanblan on Unsplash

Le rocambolesche morti dei santi

Un’altra delle cose più affascinanti, per me che sono appassionata di trasmissioni sui serial killer, è stata ascoltare le terribili e anche un po’ rocambolesche morti dei santi. I santi, infatti, prima di diventarlo devono subire morti atroci e possibilmente non tirare le cuoia prima di aver affrontato più di un tentativo di assassinio. San Clemente, per esempio, è stato gettato in mare con un’ancora a lui legata perché i romani erano persone previdenti. La mia preferita, però, rimane Santa Caterina, la martire di Alessandria. Racconta la storia che durante alcuni festeggiamenti pagani, lei si rifiutò di prendervi parte perché, appunto, pagani. Lo fece con tale intelligenza e coerenza, che l’imperatore pensò che sarebbero serviti dei “capoccioni” di pari livello per convincerla a rinnegare la sua fede e le inviò un gruppo di filosofi.

I filosofi non solo non la convinsero, ma si convertirono alla sua religione. L’imperatore allora, dotato di grande pazienza, le concesse il perdono se si fosse concessa a lui. Ma quella era santa, mica scema e rifiutò. Per questo fu imprigionata senza acqua né cibo.

Il digiuno, però, su di lei fece l’effetto della maschera di Lancome che la mia amica Tamara assicura restituire una pelle da Bella Addormentata. L’imperatore gioca la carta imperatrice, pensando che magari tra donne avrebbero parlato degli effetti del digiuno sulla pelle, ma non solo la moglie non riportò Caterina sulla retta via, ma venne a sua volta convertita.


A quel punto uno avrebbe rinunciato, ma l’imperatore non era uno e quindi condannò la ragazza alla tortura della ruota dentata, la quale invece che martoriare il corpo di Caterina, si bloccò. Per caso qualcuno ebbe come un sentore che la ragazza avesse una protezione di un certo livello? Non l’imperatore, comunque, che la fece decapitare. Tutto si può dire ma non che non fosse un uomo insistente.

Dettaglio di una delle guglie di Santa Caterina Martire a Roma

Nessuno mette San Pietro in un angolo

A proposito di Santa Caterina, una delle tappe del tour è proprio la Chiesa di Santa Caterina Martire.

Come tante altre persone che abitano a Roma, conosco la città ma ci sono ancora diversi posti da scoprire. Per esempio una chiesa ortodossa che ricorda gli edifici del Cremlino alle spalle della ben più nota Basilica di San Pietro. Invece in un tripudio di bianco, oro e verde si presenta davanti a noi questa struttura che sa un po’ di Disneyland e un po’ di Piazza Rossa.

Fortuna vuole che in quel momento fosse in atto una liturgia.
Se poi si ha un po’ di fortuna e si riceve il consiglio giusto, si possono vedere le due chiese, magari al tramonto, da una prospettiva maestosa.


La parte divertente del racconto su questo edificio è che quando si decise di costruirlo, si presentava il problema che sarebbe risultato più alto della Basilica di San Pietro. Eresia! Nessuno mette San Pietro in un angolo e quindi bisognò optare per uno sbancamento del colle su cui si sarebbe eretta Santa Caterina, così da renderla meno vistosa. Insomma quella sottile rivalità tra Chiesa occidentale e quella orientale.

Un gruppo di alberi fa da cornice al primo piano della chiesa di Santa Caterina Martire a Roma. In lontananza la cupola di San Pietro

Arrivare a scoprire questa chiesa non è così banale, richiede un lungo tragitto con l’autobus e mi sembra che si siano accertati di non darle troppa visibilità altrimenti San Pietro ci rimaneva male.

Merita però la visita, da continuare lungo la Passeggiata del Gelsomino, un percorso intorno al Cupolone ricavato dallo spazio che prima era occupato da uno dei binari della ferrovia del Vaticano. Perché il Vaticano ha una ferrovia? Non diciamo sciocchezze, ovvio, è il Vaticano.

La gastronomia slava

Il nostro tour prevede ancora due soste. La prima è in una libreria di cultura russa, il Punto Editoriale, dove la coppia che l’ha aperta ci spiega le ragioni dietro alla scelta di avere un negozio a Roma rivolto a un segmento così specifico e ci lascia curiosare tra i titoli e le edizioni tanto incomprensibili, quanto affascinanti.

Interno di una libreria specializzata in testi russi. Ragazzo di spalle che indossa una maglietta nera e guarda i libri esposti

La conclusione degna della giornata è mangereccia. Ci fermiamo ad assaggiare dei prodotti tipici al Mix Markt di Roma Termini. Assaggiamo una bevanda alla betulla e il Kvass, una birra russa che sa di pane. Mangiamo cetriolini all’aneto e uova di salmone sul pane nero. La gastronomia slava ci convince talmente tanto che entriamo nel negozio a fare rifornimento. Noi in particolare ci portiamo a casa diversi prodotti, tra cui una crema di zucchine che crea dipendenza.

Foto di cibo slavo disposto sul ripiano di una cucina

Un’altra porzione di realtà

Ho partecipato a questo tour per motivi già scritti, volevo andare in sala operatoria con un bel ricordo alle spalle, tante volte fossi rientrata in quella casistica esigua di chi non ne esce più.

Non solo non sono morta, ma ho anche fatto un’esperienza bellissima da tanti punti di vista. L’organizzazione di Eleonora e Alessandra è stata impeccabile, ho scoperto un’altra faccia della mia città, ho abbracciato persone che non avevo mai incontrato dal vivo e altre che non vedevo da un po’, ho riso tanto, ho mangiato e ho delle nuove foto sul cellulare.

Soprattutto ho capito che uno dei modi per non cadere nella rete della connessione costante e del ristagno nel presente, è cercare un’altra porzione di realtà. Diversa, insolita, poco conosciuta ma che possa riempire veramente la testa di sensazioni belle e liberarla dalle zavorre mentali.

Riempitevi di bellezza

Riempitevi di bellezza, se non in prima persona magari scegliendo un altro dei miei articoli e provando a partire con la testa.

Se invece avete bisogno mettere in moto tutto, Vie di Fuga per Natale ha pensato a dei buoni regalo per partecipare ai loro tour. Invece che ridurvi all’ultimo a comprare l’ennesimo oggetto che verrà buttato alla prima occasione, questa è un’alternativa migliore.

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BTO. Buy Tourism Online. Parte II

Negli episodi precedenti, ho approfondito cosa fosse il BTO e quali i suoi concetti chiave. In questa seconda parte mi concedo ancora alcune considerazioni sull’evento prima di dichiararlo definitivamente chiuso.

Ci siamo lasciati parlando dell’importanza della formazione e del coinvolgimento delle persone quando si vuole che un cambiamento generi valore. Ma come si può fare tutto questo senza utilizzare prima di tutto uno strumento tanto efficace quanto spesso relegato in un angolo come l’ascolto?

Su questo argomento è basato l’intervento di altre due divinità del mio (e non solo) Olimpo professionale: Alessandra Farabegoli e Miriam Bertoli, entrambe nel settore del digital marketing, entrambe fondatrici di una delle migliori scuole di formazione che abbia frequentato negli ultimi anni: la Digital Update.

Cosa vuol dire saper ascoltare? Intanto che la prima cosa da ricordare quando ci troviamo di fronte a un cliente, è che noi non siamo il nostro cliente. Per quante affinità possano esistere, non potremo mai sostituire il nostro pensiero al suo; di qui l’esigenza di avvicinarci a ogni persona con umiltà, curiosità ed empatia, affinché si possa non solo costruire un rapporto di fiducia (e qui torna il concetto di coinvolgimento), ma soprattutto un’esperienza gratificante e cucita su misura per il nostro cliente.

Durante il discorso di Daniele e Jacopo sull’innovazione nei processi aziendali, veniva sottolineato come non esistano formule che stanno bene un po’ su tutto. Lo stesso concetto viene ribadito qui: se vogliamo attrarre, convincere e possibilmente far rimanere i nostri clienti, dobbiamo individuare delle strategie personalizzate e, per farlo, dobbiamo porre le giuste domande e utilizzare con cura le risposte.

Il concetto di personalizzazione, che permea un po’ tutto l’evento, viene ribadito durante un altro interessantissimo panel a cura di Barbara Sgarzi, una consulente che da anni si occupa di formazione digitale alle aziende. Il suo intervento si intitola “Dai social in cantina e viceversa” e dove si parla di vino, io mi sento chiamata in causa.
Anche Barbara sottolinea l’importanza dell’ascolto come strumento per ottenere una comunicazione personalizzata ed efficace.

Attenzione, l’ascolto non è solo verso l’esterno (genericamente il cliente) ma anche verso l’interno; vuol dire prima di tutto ascoltare se stessi per poter proporre qualcosa di veramente valido. Lei sostiene, per esempio, che se non si ha niente da dire, è inutile essere presenti su qualsiasi piattaforma tanto per fare presenza rischiando una ridondanza di contenuti. Meglio avere una strategia mirata e precisa che tenga conto anche di chi siamo e di cosa vogliamo dire. L’ascolto, quindi, deve partire prima di tutto da noi stessi. Barbara ci mostra con degli esempi pratici quanto appena spiegato, riportando due storie rispettivamente di successo e insuccesso. Nel caso di ATM Milano, l’azienda è riuscita a costruire un profilo Instagram seguito, grazie alla capacità di coinvolgere i suoi utenti attraverso un hashtag dedicato: le foto dei passeggeri che avessero usato quell’hashtag, sarebbero state condivise sull’account ufficiale dell’azienda. ATM ha tirato su una comunicazione coinvolgente, basata prima di tutto su una consapevolezza interna: un sistema di trasporti che funziona davvero. Secondo caso, quello del Dipartimento di Polizia di New York che avrebbe voluto “ammorbidire” la figura del poliziotto, invitando gli utenti a condividere le foto del loro cop di quartiere. Peccato che fosse il periodo di Occupy Wall Street e le persone inferocite avessero cominciato a pubblicare le immagini dei poliziotti impegnati a picchiare i manifestanti.

Cosa ci insegna tutto questo? Che prima di proporre un qualsiasi piano di comunicazione a qualcuno, bisogna conoscere a fondo una serie di elementi: dalla propria identità, al contesto, fino ad arrivare alle richieste del cliente.

Arrivata alla seconda giornata del BTO, questo è ciò ho imparato: la necessità di “tornare umani” per capire cosa offrire, come offrirlo e perché offrirlo. Come ogni epoca, anche la nostra sta attraversando dei cambiamenti che possono migliorare l’esperienza del singolo se, attraverso uno sforzo collettivo, riusciremo a comprendere come utilizzare tutta questa mole di informazioni.


Ho sentito serpeggiare un brivido di terrore durante il panel sul food delivery e di come questo fenomeno stia cambiando le nostre abitudini di consumo, a tal punto che un giorno la struttura della nostra casa cambierà perché non avremo più l’esigenza di cucinare. Un disturbo nella forza di fronte alla possibilità che noi italiani potremmo non avere più una cucina o non così come la conosciamo. Ma stiamo scherzando? Quale parte di “cibo” non è chiara nella parola “italiani”?


Proprio noi che siamo pronti alla guerra santa quando si tratta di difendere i veri valori del Paese, tipo il pecorino nella carbonara, dimenticandoci che tutto può evolvere e che tradizione non è necessariamente sinonimo di bontà. Questi concetti sono stati ampiamente discussi durante il panel dal titolo “Cibo ambasciatore dell’Italia nel mondo”, dove si rimarca ancora una volta che essere autentici, non vuol dire rifiutare di essere innovativi. Si può e si deve, per esempio, dare spazio alle nuove generazioni e alla loro visione del cibo. 

Più in generale si può e si deve essere aperti al cambiamento, perché, come dice Paolo Marchi ( vicepresidente Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto) citando Gualtiero Marchesi, c’è differenza tra un piatto buono e un piatto cucinato bene. 

Ecco che torna il concetto di cambiamento e di come affrontarlo in maniera positiva. C’è sempre un po’ di sospetto quando si parla di questo argomento, soprattutto quando si arriva al modo in cui le informazioni (utili per innescare un cambiamento) vengono prese, dove vanno a finire, come vengono usate.

È un argomento estremamente delicato su cui non ho una conoscenza così strutturata da farmi prendere posizione. Quello che penso è che se queste possono aiutarmi a vivere una quotidianità davvero più facilitata, più consapevole e più personalizzata ne sarei davvero molto lieta.

Durante questo evento incentrato sul turismo ho ascoltato tante realtà che già operano in questa direzione, allo scopo di offrire a chiunque un’esperienza adatta alle sue esigenze. So che ci sono ancora tanti che non sanno come indirizzare questi dati e contribuiscono a trasmettere una visione del mondo in cui qualcuno sta solo cercando di venderti un prodotto o un servizio, senza mai offrire qualcosa in cambio.

Mi sono entusiasmata di fronte ad alcuni interventi, mentre altri mi hanno lasciata del tutto indifferente. Mi sono ricordata quanto è bello essere bombardati da così tante informazioni e quanto poi è difficile metterle in ordine. Ho rivisto tante persone incontrate negli anni e nelle situazioni più disparate, con alcune ho brindato a questi incontri, con altre ho brindato due volte.

Ho mangiato gli affettati toscani, i formaggi, ho portato un bacione a Firenze e sono stata ricambiata.

Dopo due giorni fitti, finisce la mia esperienza al BTO. Ringrazio chi ha coordinato il social media team senza mai perdere la rotta (la fiera Annalisa Romeo), i miei compagni di ventura e tutta l’organizzazione che ha reso possibile questo evento.

Al prossimo racconto.



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BTO. Buy Tourism Online. Parte I

Questo, per me, è un periodo particolarmente denso e mentre lo scrivo penso che tutti i periodi mi sembrano così, ma è vero finché non ne arriva uno più potente, come l’amore o il mal di denti.

E questa per me è una delle fasi più intense che ricordi, per lo meno emotivamente. Assomiglia a tutti gli effetti a una fase di rinascita, di quelle che si propongono all’incirca alla fine di ogni anno, quando si sente il bisogno di tirare le somme anche quando si fa finta di no. Ma sto già perdendo il filo.

Il 2020 è iniziato con cari amici che hanno dato alla luce una persona nuova di zecca e altri che stanno dando alla luce una nuova versione di loro stessi dopo aver attraversato il ciclone del dolore ed esserne usciti divisi, diversi. È iniziato con serie tv da vedere, biglietti del treno fatti, alberghi prenotati e workshop strutturati così bene da essere quasi commoventi.

In tutto questo ci sono io, che alla domanda “ma tu di che cosa ti occupi?”, vorrei rispondere che mi occupo di me stessa. 

Ho scoperto che occuparsi di se stessi è un lavoro che andrebbe retribuito data la complessità dei compiti da affrontare. Per esempio stamattina, prima di mettermi seduta davanti al pc, mi sono alzata, ho fatto colazione con il Dottore e molto responsabilmente mi sono ficcata nuovamente a letto. Semplicemente non avevo voglia di affrontare il mondo, avevo avuto una notte agitata per via di una serie tv (Sherlock se ve lo state chiedendo) e ho ritenuto che la vita potesse aspettare qualche ora prima di cominciare.

Sulle difficoltà di una vita da ricominciare a 39 anni, sull’orologio biologico che ticchetta nonostante l’era del digitale ne parleremo in un altro articolo, dal momento che tutta questa premessa era per introdurre l’argomento principale. In questo periodo di grandi scombussolamenti, ho trovato anche il modo di partecipare a una cosa divertente che spero farò ancora (semicit da David Foster Wallace): il BTO, il Buy Tourism Online.

Qualche tempo sono venuta a sapere tramite amici che erano aperte le selezioni per il social media team di questa manifestazione e con la grande stima di me che ho su certi aspetti, ho partecipato ma senza grande convinzione.

La conoscete la sindrome dell’impostore? Quella per cui non ci si sente mai abbastanza qualificati o legittimati in una cosa che si sta facendo, anche se si è persone di successo? Anzi soprattutto se lo si è. Molte persone che conosco, brillanti, professionalmente stimate, ne soffrono. Figuriamoci io che a 39 anni ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato quanto mi sentissi in grado di affrontare quell’esperienza.

Solo che contemporaneamente a quella sindrome, ne soffro di un’altra che chiameremo del “pare brutto” che arriva dalla mia educazione familiare.

Lasciare qualcosa nel piatto non si fa, pare brutto.

Rifiutare un invito cortese, pare brutto.

Mandare a quel paese i vicini di casa, pare brutto.

Non partecipare alle selezioni di un evento che si preannuncia interessante, più che brutto pare da idioti.

Quindi se da una parte pensavo di dover partecipare perché tutto sembrava gridarlo, dall’altra mi dicevo che tanto sarebbe stato un buco nell’acqua. Naturalmente, più è alto il terrore che una cosa si verifichi, più è alta la probabilità che questa avvenga. E io ero abbastanza intimorita nel dovermi confrontare con un evento del genere per la prima volta.

CHE COS’È IL BTO – Facciamo un po’ di ordine. Dopo aver scritto ampiamente delle mie paure, perplessità e fisime, sarà bene chiarire meglio cosa è il BTO e cosa ho fatto io durante la manifestazione.

Come ho anticipato prima, si tratta di un evento sul turismo in cui addetti del settore e non si interrogano e discutono di innovazione e ospitalità. L’evento è alla sua dodicesima edizione e quest’anno il tema era il “manifesto onlife”, uno studio condotto da 13 esperti di discipline diverse (antropologia, neuroscienze e altro ancora). La Commissione Europea, infatti, ha stabilito alcuni obiettivi di crescita per la UE da raggiungere entro il 2020 e tra questi obiettivi c’è anche quello digitale. Cerco di riassumere in maniera anche a me comprensibile cosa c’entra tutto quello che sto dicendo con il BTO. Abbiamo quindi detto che la Commissione Europea fissa degli obiettivi che necessitano di un programma e di una serie di azioni volte a realizzarlo. Una delle macroaree è quella digitale, uno dei programmi è quello di migliorare la consapevolezza dei cittadini europei nei confronti di quest’area e una delle azioni è stata la creazione del Manifesto Onlife che vuole aiutare a cercare la risposta alla domanda “cosa vuol dire essere umani in un’era iperconnessa?” (se avete dubbi, perplessità o semplicemente non mi avete capita, opzione probabile, leggete la riflessione di Maria Cristina Tortorelli  sull’argomento).

Facendo finta che fin qui sia tutto chiaro, anche il settore travel si interroga sulle possibili implicazioni di quest’era digitale e sulla necessità di nuovi modelli cognitivi che aiutino a riportare il focus sull’essere umano, che in quest’era deve viverci.

IL SOCIAL MEDIA TEAM  – Un evento del genere richiama un bel po’ di gente e può essere raccontato sotto differenti punti di vista. Io sono stata scelta per farlo attraverso il canale social che più uso (Instagram) e con il mio stile narrativo. Questo è stato uno dei motivi per cui mi sono candidata come parte del progetto; più spesso di quanto vorrei, mi capita di vedere/ascoltare/leggere una comunicazione piatta, asettica o anche solamente priva di qualsiasi personalizzazione. Ed ero certa che in una manifestazione che ha al suo centro le persone, avrei avuto la possibilità di realizzare qualcosa che sentissi mio.

Quello che segue, quindi, è il racconto di come io ho vissuto questi due giorni di fiera.

GIORNO UNO – Arrivo il giorno stesso dell’evento, provata dalla sera prima in cui avevo fatto tardi per accompagnare Alessio e un nostro amico al concerto dei Dream Theater.

Neanche il tempo di lasciare la valigia in albergo, che vengo catapultata nella centrifuga del BTO. La struttura che ospita l’evento è la stazione Leopolda, la prima stazione ferroviaria di Firenze costruita nel 1848, in cui, sfruttando lo sviluppo architettonico orizzontale, sono state ricavate sei hall per la bellezza di 180 speaker.
Immaginavo che sarebbe stato faticoso seguire i vari panel, ma non avrei saputo quantificarne la dimensione. Ora lo so: tanto. Immaginate spostarsi per le diverse sale, con un intervallo di dieci minuti tra gli interventi, e seguire argomenti diversi tra loro senza buttarsi per terra a piangere finché mamma non vi prende in braccio.

Il BTO inizia con il discorso di apertura del suo direttore scientifico, Francesco Tapinassi, che introduce il leitmotiv dell’evento, la necessità di riportare al centro di ogni strategia l’elemento umano. È in un’epoca come questa, a mio avviso, che bisogna ripensare al rapporto uomo-macchina non riducendolo all’immagine straniante di HAL 9000 (sapete no, le macchine prenderanno il sopravvento e moriremo tutti dopo un periodo di tirannia sotto di esse), ma capendone le potenzialità.

Cosa che, ancora, non viene fatta nella sua totalità. Da una parte in maniera del tutto comprensibile se pensiamo a quanto tra i comuni mortali (quindi non scienziati, non professionisti, parlo proprio dei miei genitori o anche di me) non sia così chiara la velocità con cui una tecnologia arriva nel quotidiano. Per esempio, la mia famiglia ora legge le recensioni su Tripadvisor ancora prima di prenotare un ristorante; quando è successo? Soprattutto quando è diventato così automatico farlo?

Dall’altra parte, proprio per evitare quell’effetto Grande Fratello in cui dei non meglio specificati poteri forti ci vogliono solo spiare, bisogna affrontare il cambiamento in termini di educazione.

Questa è una delle cose che mi ha colpito del primo panel “Innovazione e hospitality: quali leve per la competitività del turismo in Italia”.

Mi fermo per una doverosa premessa, che ho già anticipato qualche riga sopra: questo è il mio racconto del BTO, i personaggi che mi hanno colpito, le idee che mi hanno stimolato e niente di tutto questo ha la pretesa di essere la guida ufficiale dell’evento. Solo su LinkedIn, cercando per contenuti, ho trovato tanti di quegli articoli per cui ho pensato: “mado’ ma a parte mamma chi lo legge questo post?”.

Ebbene, fosse anche solo per mamma, questo BTO mi ha insegnato che l’educazione parte dal singolo, perché siamo noi tutti che partecipiamo a questa rivoluzione e quindi bisogna essere parte attiva di questa alfabetizzazione digitale.

RIEPILOGONE PER I PIÙ PIGRI – Il BTO è una manifestazione sul turismo che ha alla base il concetto di innovazione applicato all’hospitality. Quest’anno il tema era “onlife”, come riportare al centro della rivoluzione digitale l’essere umano. Prima di tutto educandolo, rendendo le risorse accessibili e continuando a formare le risorse. La resistenza al cambiamento, se fine a se stessa, diventa solo controproducente.

Torniamo quindi al panel e ai concetti che ho sentito più vicini. Come ho detto la necessità di formare un settore (quello del turismo) che da solo copre il 13,2% del PIL ma che ancora incontra difficoltà a evolversi del tutto, da parte di chi in quel settore ci lavora.

Io che sono una grandissima fan della formazione, ancora mi sorprendo da quanto questa non venga considerata ancora una leva fondamentale. Se fossi a capo di un’azienda, obbligherei il personale a tutti i livelli a fare formazione almeno una volta l’anno. Ma ricordiamo che io non sono un’azienda, altrimenti non avrei mai accettato le dimissioni di una dipendente come me. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo un’altra volta.

Accanto alla leva formazione, c’è anche la leva tecnologica intesa come accesso migliorato e disponibile per tutti a un sistema di risorse. Quindi se vogliamo che le persone perfezionino le proprie competenze, dobbiamo permetterglielo.

La cosa che mi ha sorpreso, anche se ripensandoci è stata una reazione sciocca, è l’aver scoperto che ci sono personaggi, nei settori più disparati, che hanno lo stesso appeal che a 13 anni avevano su di me i gruppi grunge. Fino a un certo punto della mia vita, ho considerato come rockstar solo chi aveva una chitarra in mano, poi chi aveva una penna e poi una telecamera, una macchina fotografica, fino ad arrivare a chi scrive codice informatico. Quando ho iniziato a lavorare in una start up, ho avuto la rivelazione che anche il mondo informatico nascondeva le sue celebrità e con una mi ci sono anche fidanzata.

Io, una bionda, che ha scelto il liceo classico per limitare l’incidenza delle materie scientifiche (alle future generazioni, non è vero! Anche lì c’è matematica e fisica e chimica, quindi scegliete il classico per altri e più nobili motivi). Dicevamo, io, a un certo punto, ho scoperto che se raccontato bene, qualsiasi argomento può affascinarmi.

Ho fatto questa premessa per due motivi: intanto per ricordare al mondo l’importanza del racconto, che sia scientifico o di tutt’altro genere, ma che sia ben fatto perché solo così si superano certe barriere. Il secondo motivo è che al panel successivo incontro quelle che diventeranno tra le mie celebrità preferite di tutto il BTO. L’intervento è incentrato sull’innovazione nei processi aziendali e lo conducono Rodolfo Baggio (Professore Master in Economia del Turismo alla Bocconi), Jacopo Romei (consulente strategico) e Daniele Radici (founder di InnovationLab).

Probabilmente vent’anni fa tutte le loro parole mi avrebbero annoiata fino alla morte, oggi li seguo con devozione. Jacopo ai limiti dello stalking, ma non ci posso fare niente se tiene dei workshop bellissimi!

Qualche riga sopra ho scritto che affinché le persone aumentino le proprie competenze, deve essere accessibile la formazione, perché a volte sono proprio le risorse umane a porre un freno ai cambiamenti nei processi aziendali. Quindi torna l’argomento “persona” anche nel talk di Jacopo e Daniele, che insistono sull’elemento partecipativo di tutto il team affinché si realizzino cambiamenti che portino valore.

Proprio perché vengo da un ambiente in cui la parola “innovazione” era tra le più usate, ho sentito il loro discorso come immagino si siano sentiti i pastorelli di Fatima quando la Madonna gli ha parlato. Perché innovare senza davvero cambiare non porta a un risultato reale.
Quando dico che una cosa, se ben raccontata, incontra il mio interesse, intendo che quella stessa cosa posso applicarla in vari campi. Il mio errore più grande è stato pensare per compartimenti stagni e relegare certi argomenti a un’area più nerd, dove possono entrare solo pochi eletti. Un errore che vedo fare anche ad altri allontanando tante persone da settori di grande fascino.

Riporto la definizione di innovazione che Jacopo e Daniele hanno ripreso dall’Oxford Dictionary e che afferma più o meno come innovare significa apportare cambiamenti a qualcosa di già esistente, attraverso nuovi metodi, idee o prodotti. Bene. Diciamo che vogliamo applicare la stessa definizione in un rapporto di coppia che sta attraversando una fase di crisi. Qual è la frase più usata? Bisogna cambiare qualcosa. Quindi la coppia si impegna apportando delle novità, magari una scuola di ballo, una vacanza, lezioni di cucina. Ma perché questo generi valore e quindi la storia vada avanti, le persone devono sentirsi coinvolte, altrimenti meglio abbandonare il progetto.

Facciamo un altro esempio più calzante sul turismo (che farà in seguito un’altra rockstar come Massimo Canducci, Chief Innovation Officer presso Engineering). In particolare concentriamoci sulle prenotazioni e sul modo in cui di solito le facciamo. A seconda che si tratti di un biglietto del treno o di un aereo, abbiamo varie opzioni. Ma in questo processo, possiamo apportare un cambiamento che genera più valore, magari facendoci risparmiare tempo e situazioni spiacevoli. L’altro giorno dovevo prendere i mezzi per andare a Roma: sono uscita tutta contenta pensando di comprare i biglietti dal tabaccaio, peccato che quello più vicino fosse chiuso e il treno sarebbe passato di lì a poco. Ok, faccio i biglietti online e passo i restanti dieci minuti rivolgendomi a santità varie perché in quel punto la rete va e viene. Quanto sarebbe stato bello, veloce e meno blasfemo se avessi potuto fare tutto a casa tramite Alexa, con una connessione Wi-Fi stabile?

Ritornando e concludendo questo discorso, torna sempre la centralità dell’essere umano che può e deve introdurre dei cambiamenti, avendo la possibilità di accedere alle risorse per farlo e sentendosi coinvolto a farlo.

RIEPILOGONE PARTE SECONDA – Si pronuncia tanto la parola innovazione come se questa da sola fosse in grado di generare valore, come se lo fosse essa stessa. Ma innovare non significa aggiungere funzionalità a un processo e il gioco è fatto, perché, come ci ricordano durante il BTO, non esistono formule precotte che vanno bene per tutti e soprattutto non esiste cambiamento che non richieda il coinvolgimento di quanti a questo cambiamento devono partecipare.

To be continued (che s’è fatta una certa)…

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New York, un posto da chiamare casa

PREVIOUSLY ON KILLBILLA: Questo su New York è l’articolo che segue quello su New Orleans che potete trovare qui. Entrambi i racconti di viaggio fanno parte della stessa vacanza che io e il Dottore abbiamo fatto a novembre 2018 negli Stati Uniti.

Cercare di raccontare e sintetizzare New York per me è un’impresa titanica; parliamo di una città “tanta”, così zeppa di cose da fare, vedere e mangiare che servirebbero due vite per comprenderne metà. Io ci sono stata più di una volta perché lì è dove ha deciso di vivere la mia migliore amica e ogni volta mi sembra di trovare qualcosa che mi era sfuggito la volta precedente.

So che ci sono persone a cui New York rimane indifferente, come ci sono persone che votano Salvini o che ancora credono che una camicia ricamata fa di un professionista, un professionista migliore. Succede, il compito di noi sani di mente è cercare di riportare le cose sui binari giusti.

 

GIORNO UNO – Arriviamo all’aeroporto JFK nel primo pomeriggio; io sono in trepidante attesa di vedere le reazioni del Dottore di fronte a una delle città che amo di più al mondo. Come ho già premesso, so dell’esistenza di persone a cui New York non è piaciuta, ma quelle persone non sono il mio fidanzato. Ci sono alcune cose su cui non posso scendere a compromessi con un partner (e proprio perché ho provato a farlo negli anni fallendo miseramente, so di cosa parlo): la fede politica, la fede religiosa, i gusti musicali, i gusti alimentari, Palermo e New York. Per il resto sono disposta a trattare.

La risposta attesa non tarda ad arrivare, ai primi grattacieli che si stagliano nella luce dorata del pomeriggio, ho paura che Alessio si rotoli fuori dal taxi per guardare ogni muro che incontra. Penso di aver visto il colpo di fulmine scattare.

Prendiamo possesso della nostra camera al Broadway Plaza Hotel e siamo pronti a iniziare la nostra avventura newyorkese.

Il privilegio di avere in città qualcuno che la conosce bene, è poter conoscere alcuni aspetti altrimenti nascosti ai turisti. Come per esempio andare a Brooklyn per una cena tra amici ed entrare in uno di quegli edifici con le scalette fuori dove ancora sono esposte le zucche di Halloween. 

Io sono in preda a una vasta gamma di emozioni, che vanno dalla stanchezza di aver preso tre voli in meno di una settimana, all’emozione di presentare tra di loro alcune delle persone più importanti della mia vita. La farò breve: è stato bellissimo e straordinariamente normale entrare nella casa di Barbara e Eddie. Eccoci tutti quanti qui, i nuovi amori da coltivare e i vecchi amori che hanno già messo alla prova la loro resistenza, tutti riuniti intorno all’isola che domina la cucina.

L’appartamento è ancora più bello di quello che avevo potuto vedere dalle foto, d’altronde i padroni di casa sono due architetti con gusto e intelligenza. Mentre giro per le stanze mi chiedo come facciano a uscire invece di rimanere chiusi a fotografare ogni angolo di questo gioiello. C’è una poltrona di design accanto a una finestra a bovindo da cui guardare le stagioni succedersi, il parquet di legno sbiancato dove camminare rigorosamente scalzi, il frigorifero gigante, il tavolo di marmo, il giradischi, il pianoforte appoggiato a una parete, la stanza colorata di Ulisse.

Stappiamo delle birre bevendo direttamente dalla bottiglia e assaggiamo le specialità americane che hanno pensato di farci assaggiare come benvenuto, dalle devil’s eggs al mac&cheese e chiacchieriamo come se ci fossimo visti la settimana precedente. Non lo so spiegare ma ci sono dei rapporti che riescono a sopravvivere al tempo e ai suoi cambiamenti, rimanendo vigorosi come se non fosse passato un giorno. Io e Barbara ci siamo conosciute che avevamo dieci anni e un carattere davvero diverso per poterci prevedere grandi amiche. Invece eccoci qui quasi trent’anni dopo, a parlare in italiano approfittando dei momenti in cui Eddie fa il bagnetto al biondo Ulisse e servendoci ancora un’altra porzione di ribs. 

Non potevo sperare in un inizio di vacanza così promettente, nel calore di un appartamento, circondata dagli affetti. 

GIORNO DUE – È una mattina splendida a New York, di freddo secco e sole. Ci incamminiamo verso il Lower East Side per un brunch con i nostri amici da Russ and Daughters; la cosa più complicata è non fermarsi ogni venti metri per fotografare le scale antincendio di un edificio o guardare a bocca aperta la pattuglia di polizia mentre gira con la sirena accesa. Tutto qui è da fotografare, toccare, guardare, assaggiare. È una città familiare e allo stesso tempo con uno stile di vita così differente dal nostro, che può sopraffare.

Il locale si rivela essere un posto luminoso a conduzione familiare dove, appese alle pareti, ci sono le foto in bianco e nero delle varie generazioni e dove si possono gustare piatti ebraici e un sacco di aringa. Non lasciatevi ingannare dall’aringa, qui troverete anche gli elementi della colazione americana: uova, french toast e succo d’arancia; siate però coraggiosi e fate colazione con i loro prodotti di punta.

A proposito, so che lo sapete, ma ve lo ripeto: a New York troverete quasi tutti i tipi di cucina ai prezzi più disparati, potreste lasciare un rene in un ristorante come mangiare qualcosa di più abbordabile nelle grandi catene. Che la vostra massima espressione di avventura sia cenare con gli involtini primavera, o che proviate qualsiasi cosa più o meno morta vi presentino nel piatto, New York può accontentarvi.

Finita la gustosa colazione, ci dirigiamo verso DUMBO, il quartiere industriale compreso all’incirca tra il Brooklyn Bridge e il Manhattan Bridge, oggi riqualificato con ristoranti, gallerie d’arte e appartamenti costosi.

Qui si gode di una vista privilegiata sullo skyline di Manhattan, quindi armatevi di pazienza perché la gente fa la fila per una foto con il ponte alle proprie spalle. Compensa il tutto la passeggiata che si fa sulle rive dell’Hudson, la vista e la capatina al Jen’s Carousel, una giostra di cavalli all’interno di una struttura di vetro che fa molto Mary Poppins.

Finito di passeggiare in quella zona, salutiamo i nostri amici e ne approfittiamo per attraversare il ponte a piedi. Anche qui mi tocca fare una precisazione: il ponte è lungo, pieno di gente e di ciclisti matti. A New York credo di aver visto la più alta concentrazione di ciclisti bulli che spadroneggiano per le strade e marcano il loro territorio con la veemenza di un leone; se disgraziatamente vi trovate sulla loro porzione di strada, sapranno rimettervi al vostro posto. A volte anche quando state al vostro posto vi ci rimettono. Ma anche qui, state camminando su quel ponte che da ragazzini vedevate solo sul pacchetto di gomme, che importa se dovrete beccarvi qualche insulto che il più delle volte non capirete?

Concludiamo la giornata da Dons Bogam Korean BBQ, che come suggerisce il nome è il barbecue coreano dove su ogni tavolo è posta una griglia su cui cuocere il proprio cibo. Consiste nell’arrostire la carne su una griglia posta al centro del proprio tavolo: molto pittoresco, delizioso e anche molto costoso. Non dimenticate mai, mai e poi mai la mancia.

 

 

 

 

GIORNO TRE – Dicevamo, New York è così ricca di cose da fare che mettete nel computo una visita a uno dei tanti musei, cosa che richiede quasi una giornata. La scelta ricade sull’American Museum of Natural History, quello del film con Ben Stiller per intenderci. Ci incontriamo con Barbara e il figlio a Central Park per fare un giro prima di iniziare la visita; siamo a novembre, l’autunno ancora è prepotente e regala colori così scenografici da sembrare irreali. Passeggiamo tra l’oro, il rosso, il verde e ancora il giallo, gli specchi d’acqua dove galleggiano placide le barche e gli scoiattoli in cerca di cibo. New York sa come rendere magica l’atmosfera.

Il museo di storia naturale è enorme, quindi bisogna scegliere cosa vedere per non rischiare di perdere le prime cinque ore a guardare i mammiferi. Le ricostruzioni dei vari habitat, della flora e della fauna esistente dalla notte dei tempi è talmente ben fatta che vi sembrerà di passare dall’atmosfera incantata della corte dell’Imperatore del Giappone alla sensazione di essere improvvisamente osservati da un dinosauro. Camminerete tra le farfalle, i Maya e le balene. È un museo suggestivo che fa sentire un po’ bambini, un po’ Indiana Jones. Il biglietto ha un costo suggerito sui 20 dollari, ma è a offerta libera, quindi se decidete di devolvere solo un dollaro, va bene lo stesso. Cercate però di non lesinare sulla cultura.

Compresa nel biglietto c’era anche la visita al Rose Center for Earth and Space, dove imparare 13 miliardi di anni di storia dell’universo; molto utile se si vuole avere una consolazione dopo tanto cibo: qui infatti ci sono le bilance che vi dicono quanto pesereste su pianeti diversi. Io su Marte peserei quanto un mio braccio. Una volta fuori dal museo, ringalluzziti dall’aver scoperto che il peso è una questione che va oltre la vostra volontà, fermatevi a gustare un hot dog da uno dei tanti baracchini disseminati in giro.

Non paghi della giornata intensa, decidiamo di intrattenerci ancora in giro per godere delle luci di Times Square di notte, quando la zona offre il meglio di sé e Blade Runner diventa un pochino più plausibile.

GIORNO QUATTRO – L’ho già detto che New York è “tanta”? È come una torta golosa di cui vi siete già rimpinzati giurando di non mangiare mai più, poi la vedete e pensate “vabbè, ormai”. Siamo quindi di nuovo per strada, per raggiungere Barbara, fare colazione insieme e vedere il suo ufficio. Parentesi: tra i posti dove ho mangiato i migliori donut cito Dough, City Bakery e Doughnut Project, dove mangiare ciambelle che nulla hanno a che fare con quelle cose plasticose che vendono in Italia. 

L’ufficio di Barbara è esattamente come ti immagini possa essere un luogo di lavoro a Manhattan, luminoso, con tanti fogli attaccati alle bacheche e dove la ragazza con i capelli fucsia e il vestito dark convive con il manager in giacca. Chiaramente io non conosco la situazione lavorativa newyorkese da vicino e sono certa che ha le sue pecche, ma l’impressione generale è stata buona e almeno ora riesco a immaginare dove passa le sue giornate la mia Barbara.

Finito con lei, ci dirigiamo in un altro dei luoghi cult: il Katz’s Delicatessen. Meglio conosciuto come location per il film Harry ti presento Sally, il locale è un deli dove mangiare su tovagliette di carta e vassoi di plastica, un posto senza grandi pretese e super affollato che ha come cavallo di battaglia il pastrami.

 

Digeriamo camminando verso Soho, entrando nell’Apple Store e nel Google Hardware Store per scaldarci e vedere le ultime novità in fatto di tecnologia. Ce lo vogliamo dire della tecnologia qui a New York? vi basti pensare che in Italia non esistono negozi Google.

Inutile ricordare anche che qui ogni negozio, ogni angolo, ogni insegna merita una visita a sé, quindi stanchi e provati dall’ennesima camminata senza sosta, ci fermiamo a prendere qualcosa da mangiare al Whole Food Market di Union Square, una catena di supermercati con un’attenzione particolare al biologico. Se non si vuole spendere una fortuna e al tempo stesso mangiare qualcosa di più sensato di un hot dog, è il posto giusto. I prezzi sono più alti di quelli dei nostri supermercati, ma la varietà della scelta e il fatto che se mangiate qui la mancia non è dovuta, vi farà cambiare idea.

GIORNO CINQUE – Ci sono ancora così tanti posti da vedere a New York? La risposta è infiniti e delle buone scarpe faranno la differenza. La prima fermata è per visitare la Grand Central Terminal, la stazione ferroviaria più grande per numero di banchine. Vale la pena di essere vista per i marmi e gli ottoni della sua struttura, l’enorme orologio a quattro facce che pende dall’alto e il soffitto affrescato a rappresentare la volta celeste. Di lì ci spostiamo a Bryant Park dove ho letto che ci sono le bancarelle di Natale e dove approfittiamo per fare shopping a tema e mangiare qualcosa di caldo. A seguire ci fermiamo alla New York Public Library, al Rockfeller Center, alla cattedrale di Saint Patrick: ogni posto che incontro mi fa venire voglia di mettermi a ballare, come se fossi sul set di un musical. Arriviamo in tempo per gustarci il tramonto sull’osservatorio in cima al Rockfeller (Top of the Rock), fa freddo, tira vento, ma intorno a noi New York brilla come il più bello tra i gioielli e niente può essere paragonato a quel momento. Se volete godervi lo spettacolo della città che risplende delle sue mille luci, ricordatevi di scegliere l’orario corretto per salire in cima, altrimenti rischiate che vi incastrino in un tour compreso nel prezzo del biglietto, che però vi farà perdere il tramonto.

GIORNO SEI – Altro giro, nuovo museo. Stavolta scegliamo il Whitney Museum of American Art, che raccoglie appunto le opere di artisti americani. Sebbene il Dottore sia più propenso a perdersi tra le tante strade della città, lo convinco con un’esposizione temporanea sulla programmazione (quella informatica informatica per intenderci), ospitata dal museo in quei giorni . Nell’ordine vediamo una mostra ben organizzata su Andy Warhol (che di solito non è il mio artista preferito), i quadri di pittori come Edward Hopper (che invece è tra i miei preferiti) e l’esposizione da nerd, di cui io capisco la metà delle cose ma sorrido un sacco e spingo tutti i tasti che trovo. 


Siccome deve aver pensato che non fossimo sufficientemente impressionati, New York decide di regalarci anche la neve. Se la città già in una qualsiasi giornata di sole è scenografica, con la neve è commovente. Usciamo dal museo contenti come bambini, i fiocchi che si posano sui capelli sui vestiti sulla barba di Alessio; mangiamo un hot dog aspettando che il vento cali e poi ci incamminiamo dentro questo dipinto fatto di tetti bianchi, alberi
 innevati e decorazioni natalizie che cominciano a sostituire quelle di Halloween. Torniamo in albergo congelati ma soddisfatti di quel regalo inaspettato.

GIORNO SETTE – Decidiamo di dedicare la mattina alla visita della zona del World Trade Center e vedere, così, anche il famoso Oculus di Calatrava.

Io ho un modo di elaborare il lutto e di partecipare al dolore che è molto privato, tuttavia devo ammettere che il 9/11 Memorial e l’area intorno risultano toccanti anche per chi come me tiene tutto dentro. Leggere i nomi delle vittime sul monumento, rimanere a fissare l’acqua delle vasche dove prima sorgevano le due torri e ascoltare il silenzio che all’improvviso cala su quella zona non lascia indifferenti.

Per quanto riguarda l’opera di Calatrava, non essendo io un architetto né un critico, mi limiterò a dire che personalmente ho apprezzato più l’interno che l’esterno. Il tentativo di far apparire la struttura come una colomba che simboleggia la rinascita di New York a mio avviso non è molto riuscito, mentre la parte dentro così inondata di luce e di bianco ha un effetto tra il paradisiaco e il futuristico, con una riuscita generale gradevole.

Finita la passeggiata al World Trade, ci incamminiamo verso Wall Street. Incontriamo per prima cosa la Trinity Church, una chiesa episcopale che con il suo stile neogotico spicca tra tutto quel ferro e vetro dei grattacieli intorno. Tra l’altro l’edificio ha anche un piccolo cimitero di lapidi a terra, che ospita alcuni morti illustri (come Robert Fulton, l’inventore del battello a vapore) e che risulta ancora più suggestivo con la neve del giorno prima a coprire le tombe.

Fatta una pausa mangereccia presso alcune bancarelle di cibo da strada, arriviamo a Wall Street che si rivela una delle zone meno interessanti del nostro viaggio. Vediamo la famosa statua del toro che viene fronteggiata da quella della fearless girl, la ragazza senza paura che un’artista norvegese, l’8 marzo 2017, mise di fronte al simbolo della Borsa come contrapposizione dell’orgoglio femminile al patriarcato. Simbologia molto interessante se non fosse per la fila chilometrica che i turisti fanno per ottenere un selfie davanti a queste due sculture. Saltiamo la fila e ci dirigiamo verso Battery Park, il parco da cui si vede in lontananza la Statua della Libertà e dove Alessio fa amicizia con qualsiasi scoiattolo che lo abita.

GIORNO OTTO – È il giorno del pub crawl, il giro dei bar insieme a Barbara ed Eddie, che per l’occasione hanno chiamato una babysitter così da affrontare questa serata come si deve. Regole del gioco: entrare nei locali il tempo di bere qualcosa e passare al successivo. Di quella sera ho ovviamente dei ricordi vaghi ed eventuali di birre bevute con sconosciuti, quarti di dollaro messi nel juke-box, cetriolini negli hamburger e speakeasy bar al piano superiore di un fast food. Quello che invece ricordo con chiarezza è tutto l’amore che ci siamo scambiati, nei brindisi, nelle confidenze che ci facciamo io e  Barbara camminando abbracciate, in Eddie e Alessio che camminano svelti davanti a noi per lasciarci parlare. Quando penso a qualcosa di prezioso, io ripenso a quella sera.

GIORNO NOVE – Ultimo giorno, ultimi giri di shopping prima di salutare la città che non dorme mai. Siamo stati abbastanza bravi da non spendere tutti i nostri averi e dedicare un giorno a comprare cose più o meno utili, cosa che facciamo dignitosamente scegliendo tazzine da caffè irriverenti e nuovi pupazzi per la nostra collezione nerd. Come per tutto ciò che la riguarda, New York è sfacciata anche nello shopping. Qui tutto merita di essere comprato, tutto è nuovo e mai visto altrove, ci vuole una volontà di ferro e un portafoglio ormai prosciugato per non fermarsi ogni cinque minuti al grido “questo in Italia mica si trova!”.

CONCLUSIONI – New York è la città dove ho tra i miei affetti più cari, se così non fosse la amerei ugualmente? Non so rispondere a questa domanda, so che ogni volta mi conquista un po’ di più e se penso alle lacrime di Alessio sul taxi che ci porta indietro, mi convinco che mi sarebbe piaciuta lo stesso. Qui puoi e non puoi allo stesso tempo qualsiasi cosa, è una città talmente viva che ti permette tanto. Ho trovato persone accoglienti e disponibili, posti incantevoli e cibo ottimo. Ho abbracciato il Dottore mentre la neve cadeva e guardato Ulisse scartare il libro che gli abbiamo regalato. Ho riso, brindato, mi sono stupita e mi hanno ricordato quanto sono amata. Ogni tanto mi chiedo cosa proverei a viverci, allora nel dubbio ho comprato un altro biglietto, pronti per New York 2019.

Travel

New Orleans. O di quando andai a caccia di vampiri

Ogni giorno mi arriva una newsletter a cui sono iscritta, alcuni giorni più di una, e ogni volta mi riprometto di leggerle tutte e fare tesoro di quello che persone più competenti di me possono insegnarmi. Lo faccio? Raramente. Le tengo lì in attesa che arrivi un tempo in cui avrò voglia/modo di leggerle. Mi è capitato però tra le mani un articolo di Medium dal titolo “To unlock your full potential, you need to write every day”. No, non l’ho finito, l’ho messo nella lista delle cose che leggerò quando sarò una ricca filantropa; mi ha fatto però riflettere su quello che una docente ripeteva durante il master e cioè che la scrittura è un’arte che va praticata. 

Come la dieta, che mi impegno ogni giorno seguire e poi sto perennemente sopra di 3/4 kg. Il mio primo romanzo lo intitolerò “Io e me tre kg in sovrappeso”. E se tanto mi dà tanto, con la costanza che mi contraddistingue quando si tratta delle mie passioni, sarà un romanzo postumo.

A venti giorni di distanza dalla partenza per gli Stati Uniti, ho ritenuto che sia arrivato il momento di scrivere del precedente viaggio in America, avvenuto esattamente a novembre 2018. Sprezzante di ogni logica di blogging/marketing/feeling, ho pensato “se non ora quando?”, sapendo che quel “ora” potrebbe estendersi in un tempo indefinito tra oggi domenica 6 ottobre e only god knows quando.

A tutto questo aggiungiamo un livello di difficoltà superiore, dato dai ricordi che potrebbero non essere precisi come un anno fa. D’altronde sono una donna di pancia. In tutti i sensi.

ANTEFATTO – L’idea di un viaggio in America nasce quando io e il Dottore ci stavamo appena frequentando. Lui mi raccontava delle sue passioni da nerdacchione e io, già perdutamente innamorata di questo ragazzone di cui capisco quello che dice la metà delle volte, pensavo che se le cose tra di noi avessero funzionato, lo avrei portato a New York a conoscere la mia migliore amica e in Louisiana a una conferenza per programmatori.

A volte la vita sa essere buona e giusta; otto mesi dopo eravamo su un aereo diretti verso la prima destinazione del nostro viaggio.

GIORNO UNO – Atterriamo all’aeroporto di New Orleans di sera tardi, quindi impossibile farsi un’idea di cosa c’è intorno, di come sembra apparire la città al nostro arrivo. Quello che non mi aspetto è l’umidità soffocante in questo novembre già iniziato. Scendiamo dall’aereo come Totò e Peppino in quel di Milano, ma il clima è invece da Miami Vice.

L’unica cosa che riusciamo a fare in questo giorno che sta ormai finendo (mica come l’estate che qui sembra ancora andare alla grande), è raggiungere lo Chateau LeMoyne, il nostro albergo per il nostro periodo creolo. 

GIORNO DUE – Siccome nei giorni a seguire il Dottore avrebbe assistito alla conferenza, approfittiamo del suo giorno libero per scoprire New Orleans.

Nel mio immaginario alimentato da romanzi e film sui vampiri, la città era una meta ambita da tempo; mi aspettavo cocchi guidati da oscuri figuri e nebbia densa come cotone. Cosa che in effetti poi ho trovato, ma New Orleans si è rivelata molto di più.

Il nostro albergo si trova nel Quartiere Francese, in quello che tradizionalmente viene considerato il cuore pulsante della città, ma anche il più turistico per certi versi.

Quello che mi colpisce di nuovo dell’America è come tutto sembri così familiare, come ogni angolo riapra qualcosa nella memoria, qualcosa di letto o di visto, come se questi posti fossero anche parte della mia storia. E in parte lo sono, non per niente la mia tesi di laurea fu proprio sugli Stati Uniti. 

Ma non divaghiamo. Il Quartiere Francese è già brulicante di vita, suona qualche gruppo jazz più per attirare i turisti che per reale spirito del blues, i furgoni scaricano la merce destinata ai ristoranti e i negozi iniziano a tirare su le saracinesche. A proposito, qui i negozi aprono tardi perché la vita notturna di New Orleans è impegnativa e no, non suonano ovunque a tutte le ore. La musica qui è una cosa seria, ma anche il turismo lo è e troverete che la paccottiglia viaggia di pari passo con i prodotti più autentici.

Decidiamo di inaugurare la mattina con una visita al Café Beignet, scelto dopo controlli incrociati su qualsiasi sito di cibo trovato nei mesi precedenti alla partenza. Il locale è un piccolo e confortevole buco che compensa con una lussureggiante vegetazione nella parte esterna. Ci sono i tavolini in ferro battuto, il pavimento maiolicato e il profumo di sciroppo d’acero e zucchero. Ordiniamo una colazione salata per lui e una dolce per me, per concludere poi con i tipici beignet, frittelle lievitate cosparse di zucchero a velo.

Dopo questa colazione dei campioni decidiamo di dirigerci al Lafayette Cemetery No.1 nel Gardens District. Tanto il Quartiere Francese è caratterizzato da edifici bassi con le porte colorate e le grondaie lavorate, quanto la zona verso il cimitero è costellata di bellissime ville in stile liberty nei colori pastello, ancora agghindate per Halloween. La fortuna ha voluto che come periodo di visita abbiamo scelto quello poco dopo il 31 ottobre, quindi abbiamo trovato la città ancora addobbata di zucche, ragnatele e pezzi di corpo penzolanti dai balconi.

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Di solito, quando vedo una casa che mi piace, immagino come sarebbe vivere lì, mettere le zucche sulle scale fuori dal portone, organizzare un barbecue nel mio enorme e curato giardino, sedermi nel patio con mio marito a bere una birra mentre Charlie, il nostro labrador, sonnecchia ai nostri piedi. Poi mi sveglio tutta sudata e mi ricordo che l’unica cosa che abbiamo a casa è un peluche a forma di sushi. Però ci stiamo lavorando.

Ancora prima di partire, mi ero informata sulle “DIECI COSE ASSOLUTAMENTE DA VEDERE SE NO SETTE ANNI DI GUAI” a New Orleans e ho letto opinioni controverse sui cimiteri, che pure sono una parte fondamentale della città. La conclusione che ne ho tratto è che informarsi prima sulle cose da fare non è mai male, ma poi il resto lasciatelo al vostro gusto, a quello che vi piace veramente.

A me piace tutto ciò che è un po’ macabro e spettrale, da ragazzina ero andata in fissa che un vampiro dovesse fare di me la sua sposa, uno dei miei Batman preferiti di sempre è quello di Tim Burton, quindi ho trovato la visita al cimitero interessante e con la giusta atmosfera. Le tombe abbandonate che riportano date lontane nel tempo, l’erba che cresce incolta nel marmo spaccato, il cielo plumbeo e gli alberi che allungano sulle lapidi le fronde pesanti. Intorno le ville confettose di Edward mani di forbice.

Quindi se vi piace il genere decadente, la visita in uno dei tanti cimiteri di New Orleans merita. E chissà che non vi troviate a incontrare Nicholas Cage che preventivamente si è fatto costruire una tomba qui perché il suo desiderio è essere seppellito in questa città.

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Il pomeriggio lo dedichiamo a un’altra delle attrazioni principali: il bayou. Nome cajun per le Westlands, è una zona del Mississipi fatta di paludi, canali e foreste dove poter ammirare gli alligatori e altri animali fantastici. Lungo la strada che ci porta al nostro tour, i segni lasciati dall’uragano Katrina sono ancora visibili nelle case abbandonate. Allontanandosi dal centro della città, si ha una maggiore impressione da America del sud, di banjo suonati sotto tetti di lamiera e gamberi d’acqua dolce tirati su con reti rimediate.

Siamo tutti molto eccitati da questa visita ai “gators” come li chiamano affettuosamente qui; io e il Dottore vestiti da Mr. Crocodile Dundee e un gruppo di arzille vecchie americane pronte ad affrontare la palude in infradito.

Il nostro capitano si presenta come un gioviale giovane uomo che ci intrattiene fino al momento clou: l’incontro con gli alligatori. Questi rettili silenziosi circondano la nostra imbarcazione con una velocità inaspettata e una calma preoccupante, per poi esibirsi nello show di questo tour, il nutrimento. Il capitano allunga un bastone con attaccato quello che sembra essere un marshmallow e ci invita a non sporgerci per non diventare a nostra volta dei marshmallow. Un alligatore esce fluido dall’acqua e con uno schioccare di fauci trascina giù la preda morbidona sott’acqua.

All’improvviso l’apocalisse: il cielo diventa nero in fretta e gocce come pugni iniziano a cadere sulla nostra barca, i fulmini illuminano la palude intorno e i tuoni sono così vicini che si possono quasi toccare.

Ora, io ho il terrore dei temporali. Non di essere presa da un fulmine e di finire croccante su qualche strada, ma una paura irrazionale che mi ha portato anche in terapia. Immaginate di vedere concretizzarsi davanti ai vostri occhi l’incubo peggiore, Freddie Kruger riflesso allo specchio, un coccodrillo su per il tubo di scarico, un brufolo il giorno dell’appuntamento con Ryan Gosling.

Mentre la nostra imbarcazione inizia a riempirsi di acqua e le vecchie lanciano gridolini quasi di piacere per questo avventuroso contrattempo, io mi nascondo tra le braccia del Dottore e intono una litania così lunga e ricca di bestemmie che sono stata scomunicata da circa 175 religioni diverse. Alla fine il nostro capitano mostra pietà e ci riporta a riva, dove io mi metto a correre verso il centro visitatori buttando giù qualsiasi ostacolo umano e non lungo il mio tragitto.

Rimaniamo in questa catapecchia di legno, fradici dalla testa ai piedi e confortati solo dal caffè bollente e da una guida che per farci dimenticare di aver visto la morte in faccia, ci ha permesso di toccare un baby alligatore. Nonostante questo momento da National Geographic, continuo a non sentirmi tranquilla, soprattutto quando un inserviente di sei metri per sei, all’ennesimo tuono, ridendo scuote la testa e dice: “Welcome to Louisiana, baby!”.

Tornati in albergo la sera tardi, io mi rifiuto di uscire ancora una volta lamentando uno stress post traumatico che intenerisce il Dottore e lo obbliga a ordinare la cena in camera.

A proposito, in America la mancia si lascia quasi sempre e obbligatoriamente. Ma se volete risparmiare ogni tanto, magari dopo una lunga giornata di camminata, ordinare da mangiare dai vari Uber Eats è un’idea valida.

GIORNO TRE – Questo è il giorno di mostrarmi per la donnina matura e indipendente che sono diventata negli anni: oggi vado in giro da sola. Lascio il mio piccolo programmatore sul luogo della conferenza e me ne vado un po’ a zonzo fino all’ora di pranzo. Raggiungo il Mississipi e gironzolo per i negozi lì nei dintorni, per poi ricongiungermi al Dottore per pranzo. Scegliamo, su consiglio di un’amica, un locale piccolo e affollato dove fanno i po’boy, il Killer Poboys. Dicesi po’boy un panino riempito di ostriche, gamberi d’acqua dolce o altri ingredienti e varie salse. La leggenda vuole che il termine nasca dall’espressione poor boy, per indicare gli sfortunati lavoratori di una compagnia di trasporti quando vennero licenziati, a cui venivano offerti gratis questi panini per sfamarsi. Noi, nel rispetto delle tradizioni locali, ne ordiniamo due a testa e vi assicuro che il terzo è stato evitato solo perché Alessio doveva rientrare alla conferenza.

Una volta salutati, io ho continuato a girovagare per il Quartiere Francese curiosando tra i negozi di antiquariato, quelli turistici e fotografando le case. Apro la solita parentesi, stavolta graffa per movimentare il nostro rapporto, per dire che a New Orleans si gira tranquillamente da soli, basta rimanere nei luoghi più centrali e affollati e non si hanno problemi. La serata si conclude prima bevendo quelle settordici birre con i compagni di corso del Dottore, chiacchierando amabilmente nell’unica lingua universalmente riconosciuta: l’alcol. Poi siamo finiti a mangiare al Desire Oyster Bar, un locale a metà tra un diner e un ristorante da vecchia Europa, dove mangiamo quello che di più tipico New Orleans ha da offrire, dal jambalaya al coccodrillo fritto. Una menzione particolare alle ostriche, che qui servono letteralmente in tutte le salse e a prezzi contenuti.

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GIORNO 4 – Altro giorno, altra corsa da sola impazzando per le strade di New Orleans. Stavolta tocca a Frenchmen Street, un’altra delle zone in cui si svolge la vita notturna di NOLA, fatta di case basse dai colori sgargianti e graffiti sui muri, per poi raggiungere Canal Street e i suoi grattacieli da grande metropoli. Questo duplice aspetto della città mi ha conquistato: da una parte l’aria decadente e spettrale della New Orleans della cultura creola e dei riti voodoo, degli edifici bassi e dei musicisti, dall’altra il carattere metropolitano fatto di strade ampie ed edifici imponenti.

Mi ricongiungo alla mia metà per l’ora dell’aperitivo e decidiamo di finire questa prima parte del viaggio con un mint julep, un cocktail originario degli Stati del Sud a base di menta e whiskey.

CONCLUSIONI – New Orleans è una città che merita una visita, anche se per stessa ammissione di chi ci abita, ha venduto la sua anima al diavolo del turismo e soprattutto zone come Bourbon Street sono caotiche e piene di cianfrusaglie a buon mercato per attirare la clientela. Resta il fatto che offre la possibilità di vedere una parte di America diversa da quella, per esempio, di New York. Qui la cultura degli schiavi si è fusa con quella dei padroni, dando vita a un mix di leggende e tradizioni di cui vale la pena far parte anche solo da turista. Quello che so è che ci sono cose che non ho potuto vedere e che mi fanno dire “io qui ci voglio tornare”.

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Travel

Saluti e baci da Palermo

Ci sono periodi della vita stressanti e poi ci sono periodi della vita in cui anche lo stress è così stressato, da aprire una spaccatura spazio-temporale per cui i possibili scenari sono:

  • Entrare nel sottosopra come Will e ricominciare una nuova vita. Se digitate da fuori Hawkins, qui un piccolo esempio che vi aiuterà a stare al passo con i tempi, facendo finta di sapere cose.
  • Trovare un eremo, comprare un eremo, entrare nell’eremo e vivere di ciò che la natura offre. La sera ubriacarsi con Fratello Sole e Sorella Luna.
  • Iniziare un percorso di analisi ma senza navigatore, perdersi nei meandri della mente e chiedere indicazioni a una delle molteplici personalità che vi abitano. Purtroppo hanno il senso dell’orientamento di un ubriaco, di notte.
  • Scrivere. Molto più economico della terapia, forse non vi renderà sufficientemente ricchi per fare tutte le cose finora citate, ma finché qualcuno legge Fabio Volo, voi potete sempre sognare.

Se poi scrivete di qualcosa di veramente bello, continuerete ad avere un misero stipendio ma l’animo si alleggerirà per qualche ora. Il mio pensiero felice di oggi è Palermo.

Ne ho già parlato e scritto e fotografato, ma per me Palermo continua a rappresentare il porto sicuro in cui trovare rifugio durante le tempeste emotive. È la città dove voglio tornare ogni tanto per farmi coccolare dalle persone amate e riportare a casa il pacco da giù ma fatto di bei ricordi. Ma soprattutto è il posto dove portare il fidanzato di turno per farlo conoscere, una sorta di battesimo del fuoco per capire se effettivamente può essere il partner giusto. Non credo di volere al mio fianco qualcuno che non ami due città in particolare: Palermo e New York.

Stavolta, poi, l’occasione si presentava ghiotta, letteralmente. Passare il 25 aprile partecipando alla famosa “arrustuta”, la grigliata di carne mastodontica di cui avevo solo sentito parlare.

Arriviamo in un feriale e già caldo mercoledì, respirando, appena le porte dell’aeroporto si aprono, l’aria densa e salmastra. Scegliamo un b&b al centro di Palermo per avere la possibilità di girarla a piedi senza grandi spostamenti. Il Dottore mi dà soddisfazione dal momento in cui scendiamo dall’autobus che dall’aeroporto porta in città: guarda con i suoi occhi sorridenti i palazzi e le strade, fotografa ogni mattonella che incontra e, dall’alto del suo stomaco di ventottenne che tutto rumina e tutto digerisce, al primo bar che incontra si infila dentro e compra un’arancina abburro. E non una qualsiasi, ma la versione “bomba” che è tipica del Bar Touring, una granata di riso prosciutto cotto mozzarella e credo besciamella che solo pochi fisici sono in grado di far esplodere senza conseguenze.

Il Kantuni B&B è un appartamento delizioso in una vietta laterale rispetto alla più caotica via Maqueda, gestito da una delle coppie a cui mi sono più affezionata nel tempo: Eva e Alessandro. Ho conosciuto questo bed and breakfast per caso quando mi serviva un appoggio durante una notte di passaggio e ci sono tornata volentieri appena ho potuto. Intanto perché sono una viziata ragazza di città con problemi di adattamento in posti che non siano puliti e confortevoli. E il Kantuni lo è. Poi perché ha una posizione strategica, è arredato con gusto e i padroni di casa sono accoglienti, ospitali e alla mano. Se volete pure una fetta vicino all’osso, loro probabilmente ve la taglieranno. Tempo che il Dottore assapori la prima arancina della sua vita, guardandomi con uno sguardo che non aveva neanche quando mi sono spogliata la prima volta, usciamo per la nostra prima serata palermitana.

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Ci sono due o tre cose che bisogna sapere prima di arrivare a Palermo. La prima: qui il cibo da strada è una faccenda seria. La seconda: è economico. La terza: è quasi sempre fritto. Quindi per la nostra prima sera veniamo portati da Franco U’ Vastiddaru, che se non ho capito male è colui che prepara la vastedda, cioè il panino con la milza. Mangiamo tutto ciò che può essere cotto nell’olio bollente e non contenti affrontiamo anche il panino con la disinvoltura di un sicario. Determinati, veloci e senza lasciare traccia. Dopodiché ci spostiamo in uno dei tanti locali che animano Palermo.

Il vantaggio di essere accompagnati in una città dai suoi abitanti è che puoi fare la loro vita, fuori dai circuiti turistici tradizionali. Andiamo al Punk Funk, locale poliedrico dove comprare un vinile, ascoltare musica dal vivo e bere un cocktail seduti sui sedili di legno dei vecchi cinema. Il mio consiglio è di ordinare un fresconegro, una bevanda che non tutti conoscono ma che dovete provare. Fa digerire, è dissetante e ubriaca che è una meraviglia. Due di quelli e il fritto sarà un lontano ricordo.

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GIORNO DUE – L’ARRUSTUTA. La cosa bella di Palermo, è che non fai in tempo a digerire che subito ti stanno offrendo qualcos’altro. La mattina dopo siamo pronti per affrontare una delle più buone grigliate mai assaggiate, fatta eccezione per una recente a casa di un collega del Dottore, dove ho provato delle ribs da lode con bacio accademico e anche una palpatina un po’ ammiccante.

Ci sono un altro paio di cose da sapere su Palermo: non necessariamente i suoi abitanti sono cordiali, alcuni sono burberi e diffidenti, ma qui ho anche conosciuto tra le persone più generose e accoglienti della mia vita. Persone con il cuore grande quanto un’arancina bomba e la capacità di raccontare la loro terra con una passione travolgente. La seconda questione riguarda le donne, che sono bellissime e magrissime e qualsiasi altra accezione positiva in issime. Come facciano a essere così longilinee con tutto quel grasso di cui sono costruite le loro case, è spiegabile dallo stesso principio dei Tuareg che non sudano nel deserto. Quando preparerete la valigia per Palermo, assicuratevi che rimanga spazio per una robusta dose di autostima che vi faccia continuare a mangiare, anche quando vi passeranno davanti con le loro pance piatte e le cosce tornite dentro shorts in cui non riuscirei neanche a infilare un braccio.

Ma torniamo a noi. La casa di Meddi e Manu, tra gli amici più cari che abbiamo, si presenta esattamente come ci si aspetta da una casa in un giorno di festa: un sacco di amici, animali che sonnecchiano all’ombra, un unico tavolo dove qualcuno ha già aperto le prime birre.

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Di quella giornata ricordo tutto o quasi tutto, visto che non dico mai di no all’alcol essendo stata cresciuta con una rigida educazione. Ricordo le risate, l’atmosfera rilassata, le chiacchiere e i barbecue sui balconi del vicinato, ma soprattutto ricordo la carne. Ora, ogni paese ha una sua tradizione in fatto di carni: come vengono condite, servite, cucinate. A Palermo ho assaggiato il mangia e bevi, un cipollotto attorno a cui è avvolta della pancetta, le stigghiole, un budello di agnello servito con o senza cipolla, e gli involtini alla palermitana, ripieni di uvetta pinoli formaggio e qualcosa che somiglia alla mia idea di Paradiso.
Ecco, se non siete di quelli che hanno il palato di un bambino capriccioso, fatevi indicare dove poter trovare alcune di queste prelibatezze. Il mio consiglio è di andare in uno dei tanti mercati palermitani, dove già dalla mattina il fumo della brace è lì pronto a darvi il buongiorno.

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GIORNO TRE – È il giorno dedicato al turismo duro e puro, quello in cui inizi a camminare e non sai quando né se ti fermerai. Si comincia con i Quattro Canti, la piazza ottagonale della Palermo barocca e opulenta dove si affacciano le statue dei quattro fiumi della città, le stagioni, i regnanti storici e le sante patrone, per poi proseguire verso Piazza Pretoria. Anche detta Piazza della Vergogna per la nudità delle statue che la circondano, per me rappresenta un altro esempio della ricchezza architettonica di una città in cui gli stili si rincorrono continuamente.

Qui si possono trovare tra le chiese più maestose e gli edifici che portano ancora le ferite della guerra, si possono incontrare coppie eleganti lungo Via Maqueda e ragazzini senza casco che portano motorini scassati. Lo dico sapendo bene che guardo con gli occhi di una turista, ma ogni volta che torno penso sempre la stessa cosa; Palermo è viva, è multirazziale, pulsa di etnie e tradizioni anche delle passate invasioni. C’è Casa Professa (meglio conosciuta come Chiesa Del Gesù) con il suo tripudio barocco, Santa Maria dell’Ammiraglio con i mosaici bizantini, la Chiesa di San Cataldo con le cupole rosse dal sapore arabeggiante.

A Palermo l’occhio non si stanca mai per la varietà che offre. Una visita ai mercati vale la pena farla; noi abbiamo scelto Ballarò per una passeggiata tra i banchi di pesce fresco e ancora lucido di acqua salata, le casse di spezie e i pentoloni che ribollono di olio pronto a friggere qualsiasi cosa. Qui la street art si incontra con i vecchi sonnecchianti sulle sedie di paglia e la lingua degli stranieri con quella locale.


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Ci fermiamo a mangiare all’Antica Focacceria S. Francesco, un locale storico dove mangiare una cucina tipica. Va detto che come posto è leggermente turistico, sia nei prezzi che nei sapori, ma io continuo a trovarlo gradevole nonostante i camerieri siano un po’ scostanti e il cibo sia “carico”. Sedersi a bere un bicchiere di vino bianco ghiacciato con un’arancina per me vale ancora la pena.

Con le ultime forze rimaste ci dirigiamo allo Spasimo, famoso perché della chiesa esistente è rimasto solo lo scheletro, per poi proseguire verso Piazza Magione con i suoi palazzi dilaniati e finire con Palazzo Butera, storica dimora, oggi centro polifunzionale con una biblioteca e spazi espositivi, riportata a nuova vita dai coniugi Valsecchi, filantropi e collezionisti.
Che poi io ogni volta che leggo “filantropi e collezionisti” vorrei sapere come si fa a prendere la certificazione. Mi ci vedo vestita con dei caftani di lino importato da qualche costa e delle collane di otto kg e mezzo al collo, i capelli bianchi costantemente legati e mio marito vestito sempre con un cardigan qualsiasi sia la temperatura. I collezionisti compiono automaticamente 70 anni appena qualcuno scrive che sono tali.

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Chiusa questa parentesi totalmente gratuita, ritorniamo alla fine della nostra terza giornata a Palermo, che concludiamo prima assaggiando la cucina gourmet di Bruto e poi bevendo birra al Bukowski. Per inciso, a Palermo il costo della birra è da denuncia, per istigazione all’alcolismo.

GIORNO QUATTRO – Continua il nostro percorso di espiazione dai peccati culinari, nella speranza vana di riuscire a perdere almeno un grammo di tutto quel fritto. Passiamo davanti al Teatro Massimo (la cui vista sui tetti di Palermo è semplicemente eccezionale), ci perdiamo tra i vicoli stretti con le lenzuola stese ad asciugare, entriamo nell’imponente Cattedrale della Santa Vergine Maria Assunta (parte del percorso arabo-normanno patrimonio Unesco) e arriviamo alle Catacombe dei Cappuccini. Qui sono raccolti all’incirca ottomila corpi perfettamente conservati grazie a tecniche di mummificazione che li preservano da secoli. È un luogo talmente suggestivo che a quanto pare rientrava nelle tappe del Grand Tour e personaggi come Alexandre Dumas e Guy de Maupassant si fermarono qui in visita. I corpi sono divisi per ruolo sociale (dottori, avvocati, soldati), per genere sessuale e per età. Il cadavere più famoso e anche più impressionante è quello della bambina Rosalia Lombardo, che morta ad appena due anni, è stata mantenuta talmente integra da meritarsi il soprannome di “bella addormentata” perché sembra che stia dormendo.
In conclusione: le catacombe valgono una visita? Sì, io sono una grande fan di cimiteri, cripte e luoghi di culto. Purtroppo non sempre questi luoghi riescono a trasmettere la sacralità che potrebbero quando diventano mete turistiche per gente a caccia di selfie con il morto.
Finita la parte macabra, passiamo il pomeriggio a Mondello accompagnati da un caro amico, tra gelati chiacchiere e l’acqua azzurra del mare, giusto in tempo per preparare lo stomaco alla pantagruelica cena al Vecchio Club Rosanero, una trattoria che ha unito due grandi passioni: il calcio e il cibo. Qui si mangia, circondati dalla collezione di memorabilia della squadra di calcio del Palermo, una cucina tradizionale sincera ed economica. Per me tappa fissa ogni volta che torno. Un unico avvertimento: i titolari e i camerieri non sono sempre affabili, anzi, a volte possono risultare burberi, ma per mangiare la loro pasta con ricci di mare e gambero rosso di Mazara del Vallo, mi farei sputare anche in un occhio.
Finiamo la serata a digerire all’Alibi, tra rum, fresconegro e gruppi dal vivo.

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ULTIMO GIORNO – È tempo di tornare a casa e di salutare ancora una volta Palermo. Qui ho portato il Dottore perché volevo che conoscesse le persone che ho imparato ad amare, volevo che sentisse il calore di una terra che sa essere generosa e che costruisse insieme a me dei ricordi da rispolverare per i giorni faticosi.
Soprattutto volevo che riportassimo, insieme ai kg, la consapevolezza che l’amicizia può davvero superare tante cose. Può farti sentire a casa a km di distanza, può risollevarti quando pensi di non avere più la forza di rialzarti e può ricordarti chi sei, da dove sei venuto e cosa puoi ancora meritare. Può prenderti a schiaffi quando hai bisogno di essere fermato e ricominciare a camminare con te.
Ecco, tante cose sono successe e tante devono ancora succedere, ma quello che so è che gli amici sono quelli che ricominciano con te, in una rinascita corale in cui ogni volta riprendono a camminare insieme a te. E ogni volta che ho pensato di non farcela, che un nuovo inizio mi sarebbe costato troppa fatica, loro hanno preso quella fatica e se la sono spartita perché il mio percorso fosse più leggero.

Questa, alla fine, è un po’ una dedica: per i vecchi amici e per i nuovi, che hanno voluto iniziare una nuova vita con me.

 

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Marche. Un racconto di lotta


Si può partire con una premessa in un articolo sul blog? E con una domanda?

Siccome tutto mi si può dire, tranne che non sono generosa di parole, ce le ficco entrambe. La premessa è che ho il brutto vizio di interessarmi davvero a qualcosa solo se ben raccontato. Non so se dipende da una soglia dell’attenzione di un cane quando vede una pallina o da un amore viscerale per la letteratura. Fatto sta che io capisco le cose profondamente quando riescono a vestirsi da storie.

Questo ci porta dritti al punto, il mio weekend nelle Marche. Sì, ancora una volta. Speriamo non per l’ultima volta.

Io e questa regione ci siamo piaciute in fretta e come ogni passione che brucia, la prima volta che ci siamo incontrate sono rimasta letteralmente scottata. Era un luglio, credo, quando il sole imperdonabile delle due del pomeriggio mi regalava un’ustione sulle gambe. Di quel giorno mi ricordo di essere entrata in una farmacia di Ancona come una tossica senza più metadone, chiedendo al farmacista di vendermi una qualsiasi cosa. Soprattutto se finiva in -ina, morfina cocaina codeina sarebbero andate benissimo.

Ora, l’amore funziona così. Al contrario di ogni buon senso, una volta che ti scotti, devi ritornare tra le fiamme. Quindi eccomi ancora una volta a voi, o Marche, però a ottobre che non mi ci fregate più con il mare.

L’occasione è per una ottima causa, la manifestazione #ripartidaisibillini che intende riportare l’attenzione e il turismo sulle zone colpite dal sisma. E qui arriviamo a quanto accennato nella premessa: le Marche sanno raccontare. Nonostante le cicatrici che ancora si vedono nei paesi e mentre si percorre la regione, sanno raccontare. Ma ancora di più, sanno raccontare la lotta.

Troppi romanzi e film mi hanno fatto appassionare non semplicemente alle storie, ma a quelle di personaggi bizzarri, un po’ strani, che la gente definisce i matti.

Quella che vi sto per narrare è la storia di una parte del più vasto racconto di una terra che non vuole mollare e di alcuni dei suoi protagonisti.

Siamo a Sarnano, un comune della provincia di Macerata che conta poco più di tremila anime. Sarnano è uno di quei posti che quando nevica diventa un presepe, che ha il centro storico in alto e da lì domina il resto del paese, che gode della protezione scenografica dei Monti Sibillini e che sta ancora lottando per rimettere in piedi quello che ha visto crollare.

Il nostro ospite è Andrea, direttore commerciale delle Terme di San Giacomo  che ci accoglie nella struttura termale insieme a Paolo, il direttore sanitario. Scopriamo immediatamente come l’impianto originale sia andato distrutto durante il terremoto e allora cosa pensano di fare tutti loro invece di andarsene e lasciarsi alle spalle le macerie? Restano ovviamente e si sbrigano a riaprire l’attività in una struttura già esistente ma chiusa. Qui stanno rinascendo, ancora più forti, più grandi, parlando delle loro attrezzature all’avanguardia come se le conoscessero una a una (cosa probabile) e sottolineando accorati la differenza tra terme intese come il bagnetto tipo Cocoon e cure termali. Mi colpisce la loro perseveranza, io che se perde acqua dalla doccia vorrei dare fuoco a casa, e soprattutto mi colpiscono le parole di Andrea. Nel raccontarci la corsa per riaprire lo stabilimento nonostante tutto e tutti, dice: “Nella sfortuna, abbiamo avuto fortuna invece. Il posto dove siamo ora sembra quasi che stesse aspettando noi e che tutti gli eventi si siano messi in modo tale che aprissimo qui”.

Questa è la prova che il bicchiere mezzo pieno esiste. Ed è pieno di acqua sulfurea.

Dopo aver lasciato Paolo, Andrea ci porta a conoscere un altro dei protagonisti di Sarnano, Andrea anche lui, che insieme alla moglie Paola gestisce la Patata Bollente. Il piccolo locale porta il nome del film con Edwige Fenech e Renato Pozzetto, ma è anche un monito. Chi glielo fa fare a una coppia così giovane e di talento di restare qui, con questa patata bollente tra le mani? Invece eccoli qua, Andrea che va a comprare la crostata la mattina per la sua brigata e Paola che guida la sua cucina con il piglio di un generale.

Quello che hanno da dire, lo fanno soprattutto con il cibo. Piatti ben eseguiti, equilibrati, saporiti, che non ti aspetti da un ristorante messo su una curva di una strada di passaggio. Se è vero che in Italia si mangia bene un altro po’ pure a casa mia, le Marche si danno un gran da fare per primeggiare. All’antipasto di affettati e formaggi io ero già commossa e pronta a chiedere la residenza, ma quando sono arrivati i quattro primi (“così a pranzo assaggiate i primi e a cena provate i secondi”) ho pensato che il mio povero cuore non avrebbe retto. No, non per i grassi saturi sciocchini. Potrei provare a darvi un’idea di quello che abbiamo mangiato, ma voglio che ci andiate e non spoilero nulla. Dirò solo: ravioli ai pistacchi, speck e pomodorini arrostiti con ripieno di ricotta e pistacchi. E quando pensavo non potesse esserci nulla di più perfetto di quel momento, sono arrivati i dolci.  Per non parlare dei vini. Devo fare un’ammissione, io ho sempre snobbato i vini marchigiani credendo che esistesse solo il Verdicchio. Poi a Ripatransone ho scoperto la Passerina della Tenuta Cocci Grifoni. Poi a Sarnano hanno stappato delle bollicine quasi commoventi che mi hanno fatto capire che non tutti quelli che hanno bevuto solo Verdicchio sono persi.

Rimpinzati a dovere dalle sapienti mani di Paola e dignitosamente brilli, conosciamo Isabella, la nostra guida per il resto del pomeriggio. Isabella racconta la sua terra con dolcezza e mostra una pazienza di Giobbe ogni volta che le chiediamo di fermarci per una foto. E di occasioni per fermarsi nella zona dei Sibillini ce ne sono da sfidare la calma di chiunque. Visitiamo Sassotetto con la sua casetta dal tetto rosso e gli alberi colorati di autunno. Vediamo le cascatelle e i monti azzurri tanto cari a Leopardi. Giriamo per la Sarnano medioevale quasi del tutto svuotata dopo il sisma, ma bella in un modo discreto mentre le luci dei lampioni cominciano a illuminare di arancione i vicoli.

La nostra prima giornata si conclude di nuovo da Paola e Andrea per assaggiare la seconda parte del menù (i secondi, succosi, carnosi, voluttuosi secondi) accompagnata da alcuni rossi veramente notevoli.

SECONDO GIORNO – Il risveglio nel bosco (sì, il residence delle terme è circondato da conifere) è come me lo aspettavo. Silenzioso e fresco appena messo un piede fuori dalle coperte.

Prima di colazione, il nostro amore per la divulgazione scientifica ci impone di provare almeno una vasca con vari getti per l’idromassaggio, così da poterne testare la validità. Prova superata, usciamo dall’acqua rinvigoriti anche nello stomaco e andiamo a fare colazione in un piccolo bar (la Coccinella Golosa) con una produzione dolciaria di tutto rispetto. Siccome i veri eroi si riconoscono dal nemico, noi affrontiamo il nostro sovradimensionato cornetto con stoicismo. Menzione d’onore al mio goloso nerd che di fronte al dilemma se prenderlo con crema o pistacchio, li ha presi entrambi.

Abbiamo tempo per vedere di nuovo il centro di Sarnano alla luce del sole, comprare un ciauscolo che si sentiva così solo lì dietro al bancone ed è già ora di pranzo. Non so se sono io o questa regione, ma qui le ore sono scandite dai pasti. Sono le coratella in punto. Ci vediamo a ciauscolo e tre quarti. Il film comincia alle fettuccine col tartufo, tartufo e mezza.

Il pranzo viene servito in una specie di rifugio (il Chioschetto) all’ombra dei Monti Sibillini, esattamente a Madonna dell’Ambro, dove il panorama è bello a dir poco e i vari gruppi si sono ritrovati per fare bisboccia insieme.

La manifestazione #ripartidaisibillini, infatti, vede più gruppi fare percorsi diversi: chi a piedi nel bosco, chi in mountain bike. A me è toccato il percorso benessere e una quaglietta lardellata che chi se la scorda più. D’altronde c’è chi ha il fisico da trekker, chi da bagno turco.

Finiamo questa piccola avventura di fronte a teglie di fettuccine al ragù e carne alla griglia, brocche di vino che passavano di mano in mano e le risate.

È tempo di salutare di nuovo le Marche, di dire loro che torno presto, che ormai parte della mia storia è scritta anche qui. Mi porto dietro il racconto di chi poteva andarsene e invece ha preferito restare. Di chi è stato dimenticato dallo Stato ma continua a lavorare per la sua terra. Di chi crede che questo è il momento di risorgere.

Risorgete, Marche, più belle e forti di prima. Io rimango qui ad ascoltarvi.

 

 

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Magerada (la d è muta)

Quando eravamo piccoli, l’anno veniva scandito da due momenti: le vacanze di Natale e le vacanze estive. Crescendo pensavo che le cose sarebbero cambiate, che avrei avuto altre scadenze e altri ritmi, invece come suggeriva una grande pensatrice del ‘900 “cambia il tempo ma noi no”. Anzi, tutto sommato neanche il tempo.

Prima della pausa di Ferragosto, in ufficio si respira quella duplice aria di apocalisse e fancazzismo. Da una parte, tutte le rotture diluite nei mesi si presentano alla porta come Equitalia e vengono fatti discorsi da fine dell’anno però ad agosto (sapete no? Abbiamo lavorato bene, gli obiettivi raggiunti, quelli da raggiungere, a settembre dovremo sforzarci di più, buona fine e buon inizio). Dall’altra, la fatica dei mesi passati si presenta sottoforma di voglia di morire mista a capacità di attenzione di un cane quando vede una pallina.

Ed è in questa atmosfera che io e Alessio (diamo un nome all’uomo che rende di nuovo felici i miei giorni) . ci concediamo un weekend nelle Marche. L’occasione è rappresentata da una manifestazione che una tenuta vinicola di mia conoscenza organizza da qualche anno e che ho voglia di vedere dal vivo. Decidiamo di staccare solo per un paio di giorni, perché il viaggio più corposo sarà a novembre e nel frattempo la parola d’ordine è risparmiare. Però passare tutta la settimana di ferie a casa, per quanto ricca di cose da fare, ci sembrava altrettanto brutto. Ed ecco venirci incontro le Marche, prima fermata: Macerata.

MACERATA – Optiamo per la città marchigiana con la scusa, per Alessio, di rivedere degli amici, per me di conoscerli per la prima volta. Sulla spinosa questione del debutto in società di una nuova coppia, parleremo un’altra volta e sempre se mi ricordo, perché ho quel problema con l’attenzione di cui non so se vi ho già parlato. Appunto.
La prima cosa è prendere possesso della nostra camera all’Hotel Lauri, una struttura vicino al centro storico con un delizioso cortile interno e le receptionist tra le più gentili che io abbia avuto la fortuna di incontrare. Unica pecca: si trova in un vicolo dove è possibile fermarsi solo per scaricare le valigie e anche velocemente prima che il proprietario della macchina dietro vi meni. A quel punto usciamo alla scoperta di Macerata e del suo cibo visto che non abbiamo ancora pranzato.

La prima cosa che penso è che abbiano chiuso la città per ferie e noi non lo sapevamo. In giro solo noi e qualche incauto vecchietto che si è perso la puntata di Studio Aperto in cui invitano a non uscire nelle ore più calde. Negozi con le saracinesche minacciosamente abbassate e poi l’oasi nel deserto, il Digusto, un locale arredato apposta per le fotografie di food, che ci sfama con uno dei simboli marchigiani: il ciauscolo. Un panino dopo facciamo una passeggiata per i vicoli di Macerata fino ad arrivare a Piazza della Libertà, su cui si affacciano edifici come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo del Comune e la Torre dell’Orologio. Quest’ultimo consiste in un enorme quadrante blu con indicazioni circa l’ora, i mesi, le fasi lunari, i pianeti e i segni zodiacali, un guazzabuglio di dettagli che culmina due volte al giorno nell’accensione di un carrillon con tanto di angelo con la tromba e Re Magi che vanno a rendere omaggio alla Madonna. Un pelino pacchiano, ma vale la pena perderci qualche minuto.

Più su ho detto che siamo in una fase di ristrettezze economiche dettate da questioni personali e da un viaggio alle porte. Quello che intendevo dire è che io sono a rota di shopping, ma ho un fidanzato molto molto serio che mi ricorda quanto sono brutte le dipendenze. Tranne concedermi ogni tanto un po’ di corda per farmi comprare oggetti deliziosi e assolutamente superflui. Tipo quelli che ho acquistato da Emporio Ultrafragola, come dicono loro stessi, “un emporio di cose perlopiù inutili ma belle”. Solo per i proprietari, vale ben una visita.

Dopodiché è la volta dello Sferisterio, una struttura voluta dai Cento Consorti, famiglie maceratesi benestanti che volevano un posto per il gioco della palla con il bracciale, e in seguito riconvertito a spazio per concerti e altri eventi culturali. Il biglietto ha un prezzo irrisorio ma si può camminare nell’arena solo fino a un certo punto. Non fatevi ingannare, dall’esterno è un edificio abbastanza anonimo e poi dentro rivela la sua anima neoclassica fatta di colonne e drappi. Volevo attaccare a cantare “Don’t Cry for me, Argentina” ma ci ho ripensato quando è entrata una comitiva urlando “Ispanico, Ispanico”. A ognuno le sue fantasie.

Facciamo una breve scappata nel chiostro di Palazzo Buonaccorsi prima di andare a cena all’Osteria dei Fiori, un piccolo locale dove mangiare piatti tipici della zona. Siccome oltre che di shopping, sono una drogata di Tripadvisor, mi ero informata e avevo letto delle recensioni sul servizio freddo dei proprietari. Ora, posto che non vado in un ristorante per fare nuove amicizie, la mia opinione è che il servizio può anche essere definito austero, ma la cucina ti accoglie e avvolge come l’abbraccio di un amante.  Abbiamo assaggiato di tutto, ma soprattutto i Vincisgrassi, una sorta di lasagna con tanto ragù e rigaglie di pollo che da sola vale il conto.

 

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GIORNO DUE – Il secondo giorno Dio creò la seconda colazione e vide che era cosa buona e giusta. Soprattutto buona. Fatta una prima colazione in albergo per dovere di cronaca, incontriamo gli amici di Alessio da Maga Cacao, una cioccolateria che ha una selezione di caffè talmente ampia che quando ho scelto, ero invecchiata di un anno. Golosa è dire poco. Trascorriamo la mattinata tra chiacchiere che scorrono facilmente e fette di torta ad accompagnare. Ci salutiamo dicendoci che ci vedremo ancora, quantomeno per assaggiare il cinghiale che fa la mamma di uno di loro. Ce ne andiamo con il sorriso che ti lascia il calore di persone belle.

Ci spostiamo verso la provincia di Ascoli Piceno, dove prosegue il nostro mini tour. Ci fermiamo prima a Grottammare Alta per goderci la vista del mare dall’alto per poi proseguire per Offida e assaggiare le olive. Nonostante l’ora tarda per il pranzo, il Vistrò ci fa accomodare e mangiare non solo il famoso fritto, ma anche un panino con delle polpette al sugo strepitose. Il problema dell’Italia è che si mangia bene ovunque.
Smaltiamo il pasto, visitando il Teatro Serpente Aureo, la Chiesa della Collegiata e Santa Maria della Rocca.
Il primo è uno dei tanti teatri storici disseminati per le Marche, che prende il suo nome dalla leggenda che circola intorno al nome stesso della città (Offida dal greco ophis, serpente). È una struttura ancora funzionante che ospita vari spettacoli, tra cui quello tanto sentito del Carnevale. La seconda è una bellissima e imponente chiesa che ospita nella cripta una fedele riproduzione della grotta della Madonna di Lourdes. Infine Santa Maria della Rocca, un castello di proprietà nobiliare poi ceduto ai monaci e costruito su due livelli.

Arriviamo finalmente alla meta del nostro viaggio, la Tenuta Cocci Grifoni, un’azienda vinicola che ha fatto di valori come il territorio, l’ecosostenibilità e la famiglia, i pilastri solidi su cui poggiare. Ho conosciuto la famiglia Cocci Grifoni un anno fa e da allora sono diventati parte della mia storia. Stavolta la scusa è Stappa 2018, una manifestazione enogastronomica con cui avvicinare il grande pubblico ai sapori di una terra.

Quando parlo di essere diventati parte della mia storia, intendo letteralmente. Ci sono incontri, nella vita, che lasciano un’impronta temporanea destinata a non lasciare traccia, poi ci sono loro, che non hanno esitato a ospitarci nella propria casa, facendoci entrare nella loro intimità, dividendo con noi la tavola, il letto e il bagno. La capobanda, la signora Diana, piccola di statura ma con il piglio del comandante di un esercito, ci ha preparato la colazione la mattina dopo, accogliendoci nella sua cucina da nonna con una tazza di caffè e la crostata fatta in casa. Hanno pranzato insieme a noi con gli avanzi della sera prima, parlando davanti a un calice di bianco di brand identity, generazionalità e rapporti umani. Questi sono i Cocci Grifoni, una famiglia che allunga le sue radici a tutti quelli che lo chiedono.
Se passate da queste parti, ma anche se non ci passate, merita di essere conosciuto questo angolo di paradiso che non ha dimenticato le sue radici, ma che sa anche l’importanza di tramandarle e se necessario cambiarle per le generazioni future.

GIORNO TRE – È l’ora dei saluti, l’azienda porta ancora i segni floreali della sera precedente, noi mangiamo un boccone di fronte alle colline che si stendono morbide e rigogliose. Ci lasciamo con un abbraccio e anche qui con la promessa di tornare.

Sono stati tre giorni, troppo pochi per riprendersi da un anno emotivamente e professionalmente intensissimo, ma pieno di persone, dei loro abbracci, della loro capacità di cambiare insieme a te, delle parole di conforto, dei sorrisi sinceri e dei cuori ancora di più.

 

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London calling (e io rispondo)

Antonello Venditti cantava “che certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, io invece per fortuna solo certi, altrimenti io e l’attuale luce dei miei occhi non staremmo insieme. Se la passione delle storie precedenti non si fosse spenta come brace quando fai il barbecue e tu volevi un’altra bruschetta, non saremmo stati le nostre rispettive fette di pane ma le briciole lasciate distrattamente sulla tavola da qualcun altro. Mi sono già persa vero? Mi ero dimenticata di quanto l’amore potesse incasinarti i pensieri ancora di più, ma torno a bomba.

Gli amori che finiscono, lasciano dietro di loro varie cose ed eventuali. A me per esempio rimasero due biglietti per i quarant’anni di carriera dei Cure, che comprai a dicembre 2017 fiduciosa che a luglio 2018 la coppia sarebbe ancora esistita. Per quei biglietti litigai anche con mia sorella, la vera fan del gruppo inglese tra le due, ma si sa che bisogna sbattere violentemente contro le cose per comprenderle appieno.

Il destino, poi, fa giri ancora più misteriosi degli amori di Venditti per riportare un certo equilibrio nella forza. Quei biglietti della discordia erano all’improvviso diventati il simbolo di una fratellanza ritrovata. Non solo, ma il concerto sarebbe stato a Londra, quindi io e mia sorella avremmo avuto la nostra “luna di miele”.

GIORNO UNO – Partiamo con il trolley più leggero mai visto in mano a due ragazze. Decidiamo di lasciare a casa shampoo e balsamo perché saremmo state ospiti di un’amica. Addirittura ci portiamo dietro un unico paio di scarpe!

Arriviamo in un’inaspettatamente caldissima e assolata Londra. Sapete quel grigio con cui tutti identificano la città? In quattro giorni io ho visto solo azzurro.

Dall’aeroporto di Stansted, prendiamo un treno che attraversa la campagna inglese prima di entrare nella metropoli ed è tutto un tripudio di casette con i mattoncini e papere negli stagni. In attesa di incontrarci con la nostra amica, facciamo un giro all’interno della stazione di Liverpool Street dove mangiamo un boccone in una delle tante catene di cibo da asporto. Dopodiché ci dirigiamo ad Hackney, una zona periferica recentemente riqualificata, dove molti artisti hanno scelto di vivere eleggendola a nuovo centro culturale. La prima cosa a cui penso camminando tra le vie è “Toh guarda, Privet Drive”, uno dei posti  citati in Harry Potter. Se siete fan della saga più famosa degli ultimi vent’anni, qui troverete pane per i vostri denti.

La seconda cosa a cui penso è quanto basti poco per sapere di essere in un’altra città ma soprattutto in un’altra cultura: guardare sistematicamente dalla parte sbagliata prima di attraversare. I cortili di fronte alle case. Le porte colorate. Le finestre a bovindo. I piccoli negozi che convivono accanto ai colossi. I profumi di terre diverse che si mischiano nell’aria. Londra mantiene il fascino multietnico che ricordavo dai miei viaggi di adolescente.

La casa in cui veniamo ospitate è così tipica che potrei rimanere a fotografare ogni angolo per una giornata intera. Ha le finestre enormi senza serrande che affacciano su una strada alberata, la moquette ovunque che ti obbliga a togliere le scarpe e il bagno senza bidet. Abbiamo però solo il tempo di lasciare le valigie e darci una rinfrescata, ché siamo di nuovo in strada, direzione Camden Town.

Camden è esattamente come la ricordavo. Ci sono ancora i negozi di cianfrusaglie, i punk, i rocker, i tossici seduti per terra, odore di cibo ovunque e tanta, tanta gente. Ci fermiamo a prendere una birra lungo il canale, al The Ice Wharf, bevendo sotto gli alberi e guardando il sole spegnersi sull’acqua. Finita la birra mangiamo del buon sushi (sebbene non troppo vario) al Sushi Salsa e finiamo la serata sul rooftop di uno spazio di coworking a ballare sulla musica anni ’80-’90.

GIORNO DUE – La data intorno alla quale ruota tutto il nostro viaggio è finalmente arrivata. Ci concediamo una colazione rinforzata al The Mokapot House che ci aiuti ad affrontare il concerto, scegliendo tra i cibi più freschi a disposizione. Uova, salsicce e fagioli. E anche se per le successive due ore ci siamo pentite amaramente, con il senno di poi si è rivelata una scelta vincente.

Il perchè è presto spiegato: la line up del festival era talmente ricca di nomi (oltre ai Cure, per citarne solo alcuni, gli Slowdive e gli Interpol), che non c’era tempo da perdere tempo in file mangerecce, quindi sante quelle salsicce che ci hanno sostenuto per otto ore di concerto.

Siete mai stati a un festival? Di queste proporzioni neanche io. Quindi ecco le cose che vanno tenute presenti quando si affronta questo tipo di esibizione a luglio.

  • Farà caldo, tanto caldo. Vi troverete a sperare che la pioggerella londinese vi venga a fare visita, ma il tempo anche ha lo humor inglese. Quindi portatevi la crema solare perché ne avrete bisogno. Bevete molto anche se è inutile aggiungere “e non uscite nelle ore più calde” perché il concerto inizia alle due e mezza del pomeriggio in un Hyde Park privo di vegetazione. Fate scorta di elastici.
  • Avete presente tutte quelle fashion blogger che hanno nel loro armadio una sezione apposita “outfit che sembrano presi ai charity shop ma valgono più di un vostro rene”? Se avete quel tipo di abbigliamento vuol dire che potete bruciarlo subito dopo e comprarne uno nuovo di zecca, altrimenti vestitevi con cose a cui non tenete particolarmente. Perché ci sarà la terra, la gente vi verserà i suoi drink addosso mentre vi passa davanti e qualcuno vomiterà durante la giornata. Lavate con acqua benedetta una volta tornati a casa.
  • Non schifatevi di niente

Detto ciò, il festival si è rivelato una delle esperienze più belle che abbia fatto in trenta…ahem anni di vita. Ineccepibile dal punto di vista organizzativo e intenso da quello emotivo. Stare lì con mia sorella, vederla cantare le canzoni con la stessa energia di quando aveva appena dieci anni, fermarci a prendere il fish’n’chips sulla via del ritorno. Ecco, tutto questo ha un prezzo, visto quanto è cara Londra, ma è un costo che sosterrei anche nelle prossime vite per vederla sorridere così. Anche se ho dovuto farmi spezzare il cuore per capirlo.

GIORNO TRE – Essere ospiti di una persona che vive nella città che stai visitando, ha i suoi risvolti positivi. Puoi fare la vita che fa lei, evitando di cadere nelle solite trappole da turisti. Perciò, dopo un lento risveglio, decidiamo di uscire per comprare l’occorrente per preparare la colazione a casa. Il problema è che a Londra anche il più piccolo degli alimentari ha cose straordinarie e mai viste, quindi finiamo per comprare più del dovuto. E a proposito di più del dovuto, pensare di venire in questa città senza acquistare nulla, è come dirsi che dopo Natale tutti a dieta. Finita la pantagruelica colazione, torniamo a Camden Town per cercare alcune cose da riportare a casa, con l’idea di proseguire non ricordo neanche dove. Epic fail.

Il mercato al coperto è così pieno di artisti e artigiani che vendono le cose più disparate da impedirci qualsiasi altra azione che non sia comprare. Al grido di “Oddio ma hai visto questo?”, passiamo quasi tutta la giornata a riempirci gli occhi e a farci svuotare il portafogli da articoli irrinunciabili. Per esempio una camicia con tanti Bart Simpson disegnati che non ho ancora idea quando né se metterò, ma che non potevo lasciare sul banco. Distrutte da quella sessione compulsiva di shopping e ancora stremate dal concerto del giorno precedente, abbandoniamo ogni velleità di visitare qualcosa e ci rifugiamo in un ristorante turco, il Tad. Nonostante l’abbondante colazione, troviamo lo spazio per ordinare l’agnello e altre specialità speziate che ci danno il colpo di grazia. Infatti torniamo a casa per un sonnellino cercando di renderci di nuovo umane. Una volta tornate presentabili, concludiamo la serata al Venerdì, un locale italiano con i tavoli fuori e un’atmosfera così piacevole da farci indugiare per un bicchiere in più di vino bianco ghiacciato.

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GIORNO QUATTRO – È il giorno della partenza. Abbiamo fatto entrare a calci i nuovi acquisti nella valigia e ci apprestiamo ad andare in aeroporto. C’è però ancora il tempo di vedere qualcosa. La prima tappa è allo Sky Garden, un giardino pensile ospitato all’ultimo piano di un grattacielo, da cui si può godere di una vista panoramica di Londra dall’alto. Il posto è suggestivo, ampie vetrate che si affacciano sulla città e all’interno una vegetazione rigogliosa che fa immediatamente Jurassic Park. L’entrata è gratuita ma la visita va prenotata online e i controlli all’ingresso sono sufficientemente severi. Una volta saliti in cima, è così tanta la bellezza che sarete ripagati di qualsiasi cosa. Subito dopo facciamo una passeggiata lungo il Tamigi fino quasi ad arrivare sotto il Tower Bridge, per poi farci tentare da Oxford Street. Premesso che a Londra spenderesti tutti i tuoi soldi solo per tutte le marche di shampoo esistenti, Oxford Street è la Mecca dello shopping. Entriamo da Primark pensando di starci al massimo mezz’ora e ne usciamo giusto in tempo per non perdere l’aereo.

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Il viaggio finisce con un trolley ai limiti della legalità, uno dei concerti più emozionanti della mia vita, una mini vacanza con la mia ritrovata sorella e un kg in più. Ho imparato che a Londra guidano come matti ma considerano le strisce pedonali sacre, che stare al piano superiore di un double-decker bus ti toglie dieci anni di vita e che puoi vestire davvero come vuoi senza essere giudicato. Mi sono ricordata di quanto è bello avere una sorella che avrei scelto anche come amica, anche quando i nostri caratteri vanno in conflitto.  Che gli amori possono finire per lasciare spazio a un sentimento più rigoglioso. Che si può pagare con la carta anche solo un caffè.

Ciao Londra, ci vediamo tra qualche stipendio.

Travel

Il cielo d’Irlanda

Ci sono momenti che vanno considerati come fasi di passaggio, riti di iniziazione a uno stadio successivo di vita più maturo e consapevole: il primo bacio, la prima ferita sul cuore, la prima ceretta integrale. Tra tutti questi mattoncini che andranno a comporre il nostro io futuro, una cosa da fare almeno una volta è partire con le amiche. A questa grande rivelazione ci sono arrivata un po’ tardi ma ci sono arrivata, d’altronde sono bionda e più di tanto non posso pretendere da me stessa.

Facciamo subito una premessa, così ci leviamo il pensiero. Io non amo particolarmente alcune situazioni sociali che altri ritengono più che accettabili: tollero il contatto fisico solo se proviene dall’amante di turno, non mi piace dormire con amiche e/o parenti e preferisco viaggiare in coppia. Quindi per me scegliere di viaggiare con due amiche è stato seriamente un mettermi in discussione in un periodo in cui la mia vita già aveva preso una svolta inaspettata. Ma andiamo con ordine perché già sento il filo del discorso lasciarmi e nessuna Arianna a tenerlo per me.

GIORNO UNO – La meta del nostro viaggio, da subito, era ricaduta su Dublino. Ci avevano sconsigliato di andarci a gennaio, troppo freddo, troppo umido, troppo tutto dicevano, ma siccome vola solo chi osa farlo (soprattutto con Ryan Air che saluto con lo stesso trasporto che i coniugi Rosa e Olindo riservavano ai vicini di casa), abbiamo deciso di partire comunque.

La città ci accoglie così come ce l’aspettavamo: grigia sotto un cielo pesante di pioggia sottile. Ce l’avete presente quando incontrate una persona e, nonostante tutti gli sforzi per convincervi del contrario, sentite che state per prendere una cotta in pieno viso? Sì che ce l’avete presente teneroni che non siete altro. Mentre la città comincia a prendere forma dietro i finestrini dell’autobus, io sento che sarà una di quelle vacanze che non dimenticherò facilmente. Come avrei scoperto nei giorni a venire, l’Irlanda è di una magnificenza non urlata che mi ha fatto innamorare abbastanza velocemente.  In più quel tipo di clima non mi dispiace affatto. Preferisco scrivere “t’amo” sulla neve che non sulla sabbia.

Dall’aeroporto prendiamo un pullman a due piani che ci scarica direttamente nel quartiere di Temple Bar, l’ora di pranzo è passata da tempo e sulla strada verso il nostro appartamento, decidiamo di fermarci a mangiare qualcosa. Apro di nuovo una parentesi così facciamo cambiare un po’ l’aria. A Dublino, come in quasi tutte le grandi capitali, si può trovare una larga offerta alimentare. Magari non i rigatoni con la pajata, anche se non ne sono così certa, ma di sicuro la scelta è variegata. Noi  però abbiamo deciso di dedicarci esclusivamente ai pub, quattro giorni di full immersion in quella che ci sembrava la parte più verace d’Irlanda.

Primo tappa, il Porterhouse Temple Bar. Quasi tutti quelli che sono stati a Dublino di solito esordiscono con “Ci sei stato in quel pub carinissimo con gli interni in legno?”. Ecco, è come dire a uno che è appena tornato da Roma se ha camminato sui sampietrini. La maggior parte delle birrerie hanno gli interni in legno e sono così deliziose da farti venire voglia di viverci dentro. La ragazza che prende le nostre ordinazioni ha un sorriso accogliente così come tanti degli irlandesi che abbiamo incontrato durante la nostra vacanza. Prendiamo delle alette di pollo glassate al miele e salsa barbecue che da sole valgono il prezzo del biglietto. Siccome sono molto attenta a onorare gli usi e i costumi dei luoghi che visito, da quel momento la mia quasi esclusiva fonte di idratazione sarà la birra. Accompagno, quindi, il mio sandwich con una Oyster Stout che mi mette subito a mio agio.

Una cosa importante da sapere, anche ovvia, ma che comunque vale la pena sottolineare è che in Irlanda i piatti sono considerevolmente abbondanti. Non avendo il nostro schema tattico antipasto/primo/secondo, vengono serviti dei piatti che pesano quanto un bambino di sei mesi. Tu sei convinto di aver preso dell’arrosto, loro lo accompagnano con quindici verdure diverse, trentadue varietà di patate e ricoprono il tutto con una salsa ai trigliceridi. Speranze di salvarvi: nessuna, ma tanto moriremo tutti, tanto vale che succeda sotto una valanga di salsa al formaggio.

Arranchiamo verso il nostro appartamento prenotato su Airbnb, dove ci diamo una veloce sistemata prima di fare un giro di ricognizione nel nostro quartiere.

La paura maggiore quando ho deciso di intraprendere questo viaggio risiedeva nell’età delle mie compagne di avventura, due ventenni splendide e intraprendenti, che già riuscivo a immaginarmi mentre mi trascinavano nei peggiori bar di Dublino a vivere serate dissennate ad alta gradazione alcolica. Sbagliato. Mai sottovalutare, infatti, la potenza dello scoutismo. Prima che giovani, queste due erano state scout e quindi non solo avevano sempre nelle loro borse generi di prima necessità, ma anche un grande senso del dovere. Il giorno dopo ci aspettava una levataccia e quindi l’unica concessione della serata è una Shepherd’s pie da O’Neill’s. Dicesi Sheperd’s pie un piatto così calorico che te lo serve direttamente un chirurgo vascolare e che si presenta come una cupola di purè, al di sotto della quale giace un ragù di agnello e piselli. Alla prima cucchiaiata la sorpresa di affondare fino a questo magma saporito di carne, alla seconda sei già in fila all’anagrafe per farti cambiare cognome in Malone.

Apro una parentesi e poi l’ultimo la chiuda, questa storia che l’Italia ha la cucina migliore del mondo e il mare bello che pare di stare ai Caraibi e Spinaceto che tutto sommato pensavo peggio, va ridimensionata. Io a Dublino ho mangiato bene nonostante quattro giorni senza pasta e sono qui per raccontarlo. Ma andiamo avanti.

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GIORNO DUE – Cliffs of Moher. Letteralmente all’alba del giorno dopo ci svegliamo per intraprendere il nostro primo tour. Come funziona: ci sono delle compagnie che offrono la possibilità di fare dei tour in giornata alla scoperta dei dintorni di Dublino. Noi abbiamo scelto la Paddywagon Tours e in particolare l’itinerario delle Cliffs of Moher, scogliere imponenti a picco sul mare. La prima tappa è nel piccolo villaggio di pescatori di Kinvara, dove una manciata di case colorate si affacciano sul porto. Come ho già premesso all’inizio, L’Irlanda è di una bellezza sorprendente. Tu credi di conoscerla in parte per via dei film visti, ma quando ci sei, ti coglie impreparato. Ogni metro quadrato racconta una storia, ti parla di leggende e ti sussurra incatesimi. Qui fotografare diventa quasi un’urgenza. Anche solo gli spostamenti tra un paesino e l’altro sono degni di nota, perché la natura magnifica incornicia qualsiasi cosa.

Attraversando la strada che costeggia le scogliere, lasciamo Kinvara e raggiungiamo il Burren, un tavolato calcareo che ospita anche le Mini Cliffs, un assaggio delle sorelle più grandi che avremmo incontrato di lì a poco. Ora, perché vengano chiamate mini io non l’ho capito, a me sono sembrate sufficientemente alte per morire sul colpo scivolandoci sopra. Avete presente Bear Grylls? Ecco, io sono dall’altra parte della scala evolutiva, quindi mi rendo conto di esagerare un tantinello, ma ricordate che in Irlanda soffiano dei venti abbastanza burrascosi. Quindi se avete voglia di farvi un selfie sul bordo di un’altissima scogliera, fate prima testamento.

Nel frattempo si fa l’ora di pranzo, che più o meno è sacra in ogni paese. Ci fermiamo a Doolin, un altro piccolo villaggio dove finalmente assaggio la seafood chowder, una vellutata di pesce che ogni menù irlandese vi propinerà. Zuppa gustosa che però non ha abbastanza grassi per i miei gusti e che decido di annaffiare con una birra chiara nel rispetto delle tradizioni. Qui bere è un imperativo e io ho obbedito tutto il tempo.

Finito di mangiare, arriviamo alla tappa protagonista del tour: le Cliffs of Moher. Vorrei conoscere sufficienti vocaboli per restituire un quarto dell’effetto che queste scogliere fanno, mentre il vento soffia prepotente e l’oceano ribolle metri più giù. Ma purtroppo sono bionda e mi limito a insistere affinché una volta nella vita andiate da quelle parti. Anche perché, se siete fortunati, anche se è una giornata plumbea in cui la pioggia vi sferza il viso e voi vi state chiedendo come si bestemmia in gaelico, i raggi del sole squarceranno all’improvviso il cielo e voi starete lì, inebetiti, convinti per un attimo che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili.

Finiamo la serata allo J.W.Sweetman, un elegante pub in legno con i camini accesi e un gruppo di musiche tradizionali dal vivo. Calorie ingurgitate per superare lo stato di ipotermia da scogliere suggestive ma fredde: un miliardo. Vite umane riportate a casa: tutte.

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GIORNO TRE – Giant’s Causeway. Un’altra cosa che abbiamo imparato da questa esperienza, è che l’Irlanda è piccola ma piena zeppa di posti da visitare, quindi incuranti della mancanza di sonno che comincia ad affacciarsi sui nostri volti, all’alba della mattina dopo siamo di nuovo su un pullman stavolta in direzione Giant’s Causeway.

Una piccola curiosità per gli amanti del genere: questo tour ripercorre diversi dei set usati per Game of Thrones. Se siete degli appassionati come la sottoscritta, verrete guardati male dalle vostre compagne di viaggio mentre lanciate gridolini entusiasti ogni cinquecento metri, ma conquisterete per sempre il cuore del vostro fidanzato nerd. Non avete un fidanzato nerd? Nella prossima puntata vi spiegherò come catturarne uno mettendo un piatto di biscotti davanti a un anime giapponese.

Ma torniamo a noi. Giant’s Causeway, o Selciato del Gigante, è un sito UNESCO che prende il suo nome dalle colonne basaltiche che si sono formate a causa di un’eruzione vulcanica. La leggenda vuole che queste colonne formassero invece una strada che portava il gigante irlandese Finn McCool dal suo acerrimo nemico scozzese. Quello che oggi ci rimane è un luogo che ha una potenza emotiva che lascia senza fiato, tutto qui è maestoso.

Lasciato a malincuore il Selciato del Gigante, raggiungiamo The Dark Hedges, un viale suggestivo dove i faggi, voluti dalla famiglia Stuart nel XVIII secolo per impressionare gli ospiti, hanno formato un’intricata galleria di rami. Obbligatoria è la foto e il successivo intervento di Photoshop per togliere le millemila persone che, come voi, sono accorse per vedere questo fenomeno.

Si continua ancora attraverso paesaggi dai colori vividi nonostante il grigio portato dalle nuvole, per concludere il tour a Belfast, dove però ci fermiamo troppo velocemente per poter esprimere un giudizio. Se però devo esprimere un giudizio a pelle, allora posso dire che l’ho trovata meno caratteristica di Dublino, ma mi riservo il diritto di tornarci.

Come luogo per la nostra ultima cena irlandese, scegliamo l’Old Storehouse, un pub dove finalmente assaggio il fish and chips. Buono ma senza le vertigini che mi ha dato la carne locale.

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GIORNO QUATTRO – Dublino sa essere essere anche una zuzzurellona e decide di farci trovare una giornata primaverile prima di riprendere l’aereo. Ne approfittiamo per vedere velocemente il Dublin Castle e la St. Patrick’s Cathedral, per poi fermarci al Trinity College, uno degli istituti più antichi di Irlanda che per un momento mi ha fatto venire voglia di tornare sui banchi. Poi per fortuna sono stata distratta da uno scoiattolo che mangiava i fiori delle aiuole ed è passato tutto. In uno degli edifici che compongono il Trinity è ospitata la Old Library, una prestigiosa biblioteca con oltre 200.000 volumi tra cui The Book of Kells, un antico manoscritto miniato di così alto valore da essere tenuto in una teca.

La cosa che a me personalmente ha più colpito della biblioteca è stato l’odore prima ancora di vederla, quell’odore di volumi antichi e legno e umido. Un profumo ancestrale di tradizioni sempiterne. E quando finalmente accedi alla sala, la magnificenza degli archi e dei marmi ti lascia in un deferente silenzio. Non so se si è intuito, ma le biblioteche hanno un grande effetto su di me.

Tornate nel sole cittadino, risaliamo su per Grafton Sreet (una delle strade più frequentate) fino a St. Stephen’s Green, un parco lussureggiante dove passeggiamo tra i cigni e ci godiamo le ultime ore prima del ritorno.

Il nostro viaggio finisce qui, in una giornata luminosa che fa presagire la primavera. E questo è il momento in cui tiro le conclusioni di un viaggio che ha avuto dell’incredibile:

  • Ho bevuto sempre, pranzo e cena, sono molto rispettosa delle tradizioni altrui. Il picco l’ho raggiunto quando sull’aereo le mie compagne di avventura hanno intavolato un frizzantissimo gioco chiamato “contiamo quante birre ha bevuto Agnese in quattro giorni”. Mai abbastanza comunque.
  • L’Irlanda può non essere facile: ventosa, fredda, piovigginosa. Ma si fa perdonare.
  • Un viaggio può essere terapeutico e le persone che ti accompagnano dei potenti medicinali se sono quelle giuste. Per questo io ringrazierò sempre Benedetta e Silvia per avermi convinto a fare questa esperienza. È merito loro se da quel momento ho ricominciato a ricucire le mie ferite.

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