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Saluti e baci da Palermo

Ci sono periodi della vita stressanti e poi ci sono periodi della vita in cui anche lo stress è così stressato, da aprire una spaccatura spazio-temporale per cui i possibili scenari sono:

  • Entrare nel sottosopra come Will e ricominciare una nuova vita. Se digitate da fuori Hawkins, qui un piccolo esempio che vi aiuterà a stare al passo con i tempi, facendo finta di sapere cose.
  • Trovare un eremo, comprare un eremo, entrare nell’eremo e vivere di ciò che la natura offre. La sera ubriacarsi con Fratello Sole e Sorella Luna.
  • Iniziare un percorso di analisi ma senza navigatore, perdersi nei meandri della mente e chiedere indicazioni a una delle molteplici personalità che vi abitano. Purtroppo hanno il senso dell’orientamento di un ubriaco, di notte.
  • Scrivere. Molto più economico della terapia, forse non vi renderà sufficientemente ricchi per fare tutte le cose finora citate, ma finché qualcuno legge Fabio Volo, voi potete sempre sognare.

Se poi scrivete di qualcosa di veramente bello, continuerete ad avere un misero stipendio ma l’animo si alleggerirà per qualche ora. Il mio pensiero felice di oggi è Palermo.

Ne ho già parlato e scritto e fotografato, ma per me Palermo continua a rappresentare il porto sicuro in cui trovare rifugio durante le tempeste emotive. È la città dove voglio tornare ogni tanto per farmi coccolare dalle persone amate e riportare a casa il pacco da giù ma fatto di bei ricordi. Ma soprattutto è il posto dove portare il fidanzato di turno per farlo conoscere, una sorta di battesimo del fuoco per capire se effettivamente può essere il partner giusto. Non credo di volere al mio fianco qualcuno che non ami due città in particolare: Palermo e New York.

Stavolta, poi, l’occasione si presentava ghiotta, letteralmente. Passare il 25 aprile partecipando alla famosa “arrustuta”, la grigliata di carne mastodontica di cui avevo solo sentito parlare.

Arriviamo in un feriale e già caldo mercoledì, respirando, appena le porte dell’aeroporto si aprono, l’aria densa e salmastra. Scegliamo un b&b al centro di Palermo per avere la possibilità di girarla a piedi senza grandi spostamenti. Il Dottore mi dà soddisfazione dal momento in cui scendiamo dall’autobus che dall’aeroporto porta in città: guarda con i suoi occhi sorridenti i palazzi e le strade, fotografa ogni mattonella che incontra e, dall’alto del suo stomaco di ventottenne che tutto rumina e tutto digerisce, al primo bar che incontra si infila dentro e compra un’arancina abburro. E non una qualsiasi, ma la versione “bomba” che è tipica del Bar Touring, una granata di riso prosciutto cotto mozzarella e credo besciamella che solo pochi fisici sono in grado di far esplodere senza conseguenze.

Il Kantuni B&B è un appartamento delizioso in una vietta laterale rispetto alla più caotica via Maqueda, gestito da una delle coppie a cui mi sono più affezionata nel tempo: Eva e Alessandro. Ho conosciuto questo bed and breakfast per caso quando mi serviva un appoggio durante una notte di passaggio e ci sono tornata volentieri appena ho potuto. Intanto perché sono una viziata ragazza di città con problemi di adattamento in posti che non siano puliti e confortevoli. E il Kantuni lo è. Poi perché ha una posizione strategica, è arredato con gusto e i padroni di casa sono accoglienti, ospitali e alla mano. Se volete pure una fetta vicino all’osso, loro probabilmente ve la taglieranno. Tempo che il Dottore assapori la prima arancina della sua vita, guardandomi con uno sguardo che non aveva neanche quando mi sono spogliata la prima volta, usciamo per la nostra prima serata palermitana.

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Ci sono due o tre cose che bisogna sapere prima di arrivare a Palermo. La prima: qui il cibo da strada è una faccenda seria. La seconda: è economico. La terza: è quasi sempre fritto. Quindi per la nostra prima sera veniamo portati da Franco U’ Vastiddaru, che se non ho capito male è colui che prepara la vastedda, cioè il panino con la milza. Mangiamo tutto ciò che può essere cotto nell’olio bollente e non contenti affrontiamo anche il panino con la disinvoltura di un sicario. Determinati, veloci e senza lasciare traccia. Dopodiché ci spostiamo in uno dei tanti locali che animano Palermo.

Il vantaggio di essere accompagnati in una città dai suoi abitanti è che puoi fare la loro vita, fuori dai circuiti turistici tradizionali. Andiamo al Punk Funk, locale poliedrico dove comprare un vinile, ascoltare musica dal vivo e bere un cocktail seduti sui sedili di legno dei vecchi cinema. Il mio consiglio è di ordinare un fresconegro, una bevanda che non tutti conoscono ma che dovete provare. Fa digerire, è dissetante e ubriaca che è una meraviglia. Due di quelli e il fritto sarà un lontano ricordo.

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GIORNO DUE – L’ARRUSTUTA. La cosa bella di Palermo, è che non fai in tempo a digerire che subito ti stanno offrendo qualcos’altro. La mattina dopo siamo pronti per affrontare una delle più buone grigliate mai assaggiate, fatta eccezione per una recente a casa di un collega del Dottore, dove ho provato delle ribs da lode con bacio accademico e anche una palpatina un po’ ammiccante.

Ci sono un altro paio di cose da sapere su Palermo: non necessariamente i suoi abitanti sono cordiali, alcuni sono burberi e diffidenti, ma qui ho anche conosciuto tra le persone più generose e accoglienti della mia vita. Persone con il cuore grande quanto un’arancina bomba e la capacità di raccontare la loro terra con una passione travolgente. La seconda questione riguarda le donne, che sono bellissime e magrissime e qualsiasi altra accezione positiva in issime. Come facciano a essere così longilinee con tutto quel grasso di cui sono costruite le loro case, è spiegabile dallo stesso principio dei Tuareg che non sudano nel deserto. Quando preparerete la valigia per Palermo, assicuratevi che rimanga spazio per una robusta dose di autostima che vi faccia continuare a mangiare, anche quando vi passeranno davanti con le loro pance piatte e le cosce tornite dentro shorts in cui non riuscirei neanche a infilare un braccio.

Ma torniamo a noi. La casa di Meddi e Manu, tra gli amici più cari che abbiamo, si presenta esattamente come ci si aspetta da una casa in un giorno di festa: un sacco di amici, animali che sonnecchiano all’ombra, un unico tavolo dove qualcuno ha già aperto le prime birre.

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Di quella giornata ricordo tutto o quasi tutto, visto che non dico mai di no all’alcol essendo stata cresciuta con una rigida educazione. Ricordo le risate, l’atmosfera rilassata, le chiacchiere e i barbecue sui balconi del vicinato, ma soprattutto ricordo la carne. Ora, ogni paese ha una sua tradizione in fatto di carni: come vengono condite, servite, cucinate. A Palermo ho assaggiato il mangia e bevi, un cipollotto attorno a cui è avvolta della pancetta, le stigghiole, un budello di agnello servito con o senza cipolla, e gli involtini alla palermitana, ripieni di uvetta pinoli formaggio e qualcosa che somiglia alla mia idea di Paradiso.
Ecco, se non siete di quelli che hanno il palato di un bambino capriccioso, fatevi indicare dove poter trovare alcune di queste prelibatezze. Il mio consiglio è di andare in uno dei tanti mercati palermitani, dove già dalla mattina il fumo della brace è lì pronto a darvi il buongiorno.

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GIORNO TRE – È il giorno dedicato al turismo duro e puro, quello in cui inizi a camminare e non sai quando né se ti fermerai. Si comincia con i Quattro Canti, la piazza ottagonale della Palermo barocca e opulenta dove si affacciano le statue dei quattro fiumi della città, le stagioni, i regnanti storici e le sante patrone, per poi proseguire verso Piazza Pretoria. Anche detta Piazza della Vergogna per la nudità delle statue che la circondano, per me rappresenta un altro esempio della ricchezza architettonica di una città in cui gli stili si rincorrono continuamente.

Qui si possono trovare tra le chiese più maestose e gli edifici che portano ancora le ferite della guerra, si possono incontrare coppie eleganti lungo Via Maqueda e ragazzini senza casco che portano motorini scassati. Lo dico sapendo bene che guardo con gli occhi di una turista, ma ogni volta che torno penso sempre la stessa cosa; Palermo è viva, è multirazziale, pulsa di etnie e tradizioni anche delle passate invasioni. C’è Casa Professa (meglio conosciuta come Chiesa Del Gesù) con il suo tripudio barocco, Santa Maria dell’Ammiraglio con i mosaici bizantini, la Chiesa di San Cataldo con le cupole rosse dal sapore arabeggiante.

A Palermo l’occhio non si stanca mai per la varietà che offre. Una visita ai mercati vale la pena farla; noi abbiamo scelto Ballarò per una passeggiata tra i banchi di pesce fresco e ancora lucido di acqua salata, le casse di spezie e i pentoloni che ribollono di olio pronto a friggere qualsiasi cosa. Qui la street art si incontra con i vecchi sonnecchianti sulle sedie di paglia e la lingua degli stranieri con quella locale.


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Ci fermiamo a mangiare all’Antica Focacceria S. Francesco, un locale storico dove mangiare una cucina tipica. Va detto che come posto è leggermente turistico, sia nei prezzi che nei sapori, ma io continuo a trovarlo gradevole nonostante i camerieri siano un po’ scostanti e il cibo sia “carico”. Sedersi a bere un bicchiere di vino bianco ghiacciato con un’arancina per me vale ancora la pena.

Con le ultime forze rimaste ci dirigiamo allo Spasimo, famoso perché della chiesa esistente è rimasto solo lo scheletro, per poi proseguire verso Piazza Magione con i suoi palazzi dilaniati e finire con Palazzo Butera, storica dimora, oggi centro polifunzionale con una biblioteca e spazi espositivi, riportata a nuova vita dai coniugi Valsecchi, filantropi e collezionisti.
Che poi io ogni volta che leggo “filantropi e collezionisti” vorrei sapere come si fa a prendere la certificazione. Mi ci vedo vestita con dei caftani di lino importato da qualche costa e delle collane di otto kg e mezzo al collo, i capelli bianchi costantemente legati e mio marito vestito sempre con un cardigan qualsiasi sia la temperatura. I collezionisti compiono automaticamente 70 anni appena qualcuno scrive che sono tali.

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Chiusa questa parentesi totalmente gratuita, ritorniamo alla fine della nostra terza giornata a Palermo, che concludiamo prima assaggiando la cucina gourmet di Bruto e poi bevendo birra al Bukowski. Per inciso, a Palermo il costo della birra è da denuncia, per istigazione all’alcolismo.

GIORNO QUATTRO – Continua il nostro percorso di espiazione dai peccati culinari, nella speranza vana di riuscire a perdere almeno un grammo di tutto quel fritto. Passiamo davanti al Teatro Massimo (la cui vista sui tetti di Palermo è semplicemente eccezionale), ci perdiamo tra i vicoli stretti con le lenzuola stese ad asciugare, entriamo nell’imponente Cattedrale della Santa Vergine Maria Assunta (parte del percorso arabo-normanno patrimonio Unesco) e arriviamo alle Catacombe dei Cappuccini. Qui sono raccolti all’incirca ottomila corpi perfettamente conservati grazie a tecniche di mummificazione che li preservano da secoli. È un luogo talmente suggestivo che a quanto pare rientrava nelle tappe del Grand Tour e personaggi come Alexandre Dumas e Guy de Maupassant si fermarono qui in visita. I corpi sono divisi per ruolo sociale (dottori, avvocati, soldati), per genere sessuale e per età. Il cadavere più famoso e anche più impressionante è quello della bambina Rosalia Lombardo, che morta ad appena due anni, è stata mantenuta talmente integra da meritarsi il soprannome di “bella addormentata” perché sembra che stia dormendo.
In conclusione: le catacombe valgono una visita? Sì, io sono una grande fan di cimiteri, cripte e luoghi di culto. Purtroppo non sempre questi luoghi riescono a trasmettere la sacralità che potrebbero quando diventano mete turistiche per gente a caccia di selfie con il morto.
Finita la parte macabra, passiamo il pomeriggio a Mondello accompagnati da un caro amico, tra gelati chiacchiere e l’acqua azzurra del mare, giusto in tempo per preparare lo stomaco alla pantagruelica cena al Vecchio Club Rosanero, una trattoria che ha unito due grandi passioni: il calcio e il cibo. Qui si mangia, circondati dalla collezione di memorabilia della squadra di calcio del Palermo, una cucina tradizionale sincera ed economica. Per me tappa fissa ogni volta che torno. Un unico avvertimento: i titolari e i camerieri non sono sempre affabili, anzi, a volte possono risultare burberi, ma per mangiare la loro pasta con ricci di mare e gambero rosso di Mazara del Vallo, mi farei sputare anche in un occhio.
Finiamo la serata a digerire all’Alibi, tra rum, fresconegro e gruppi dal vivo.

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ULTIMO GIORNO – È tempo di tornare a casa e di salutare ancora una volta Palermo. Qui ho portato il Dottore perché volevo che conoscesse le persone che ho imparato ad amare, volevo che sentisse il calore di una terra che sa essere generosa e che costruisse insieme a me dei ricordi da rispolverare per i giorni faticosi.
Soprattutto volevo che riportassimo, insieme ai kg, la consapevolezza che l’amicizia può davvero superare tante cose. Può farti sentire a casa a km di distanza, può risollevarti quando pensi di non avere più la forza di rialzarti e può ricordarti chi sei, da dove sei venuto e cosa puoi ancora meritare. Può prenderti a schiaffi quando hai bisogno di essere fermato e ricominciare a camminare con te.
Ecco, tante cose sono successe e tante devono ancora succedere, ma quello che so è che gli amici sono quelli che ricominciano con te, in una rinascita corale in cui ogni volta riprendono a camminare insieme a te. E ogni volta che ho pensato di non farcela, che un nuovo inizio mi sarebbe costato troppa fatica, loro hanno preso quella fatica e se la sono spartita perché il mio percorso fosse più leggero.

Questa, alla fine, è un po’ una dedica: per i vecchi amici e per i nuovi, che hanno voluto iniziare una nuova vita con me.

 

Lifestyle

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.