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I love my jobs

All’inizio questo articolo doveva intitolarsi “Curriculum“, come la canzone omonima dei Virginiana Miller che mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca, before it was cool. Poi le cose dei grandi mi hanno distratta e ho rimandato.

Ho pensato, allora, di scriverlo sotto le feste e intitolarlo “Canto di Natale” come il racconto di Dickens, tanto di soldi e di lavoro più o meno sempre si trattava. Poi di nuovo le cose dei grandi sono intervenute e ho rimandato ancora una volta.

Nel momento in cui finalmente sto scrivendo, è il 31 dicembre, questo articolo ancora non ha un titolo e neanche so se lo finirò oggi, altrimenti diventa l’ennesimo contenuto di fine anno, anche quando finge di non esserlo.

Quindi sì, questo è l’ennesimo contenuto che leggerà la mia famiglia, ma 1) ho pagato anche nel 2023 per mantenere questo dominio, anche se avevo detto basta scrivere, là fuori è pieno di gente che scrive, io da grande voglio fare quella che non scrive.

Ma soprattutto 2) mi sono resa conto che se di certe cose non avessi parlato in privato con alcune persone, mi sarebbe rimasta per sempre l’impressione di essere l’unica scema del villaggio digitale.

Avvertenze per l’uso

Questo articolo è scritto ignorando qualsiasi nozione o buona norma di scrittura su web, mi dispiace, ma scrivendo una volta all’anno, che senso ha curare anche la forma? In un’altra vita, eh.

Faccio pilates, ma niente di serio

Sarò breve: nel 2019 mi dimetto da un lavoro come dipendente per una società, all’interno di un acceleratore e incubatore di start up. Non scriverò quanto, sul finale, quell’esperienza mi abbia traumatizzata, non è il motivo per cui annoto queste considerazioni. L’aspetto pertinente è perché io abbia iniziato quella esperienza e cosa stavo facendo fino a quel momento.

Mi tocca aprire una parentesi, che forse lascerò aperta, tanto con la crisi climatica sembra giugno. Io sono laureata in Scienze della Comunicazione, ho un master in Brand Management e tante altre specializzazioni, tra cui alcune nel fitness e, in particolare, sul pilates. Dice perché?
Quando avevo vent’anni e ancora studiavo, stavo con un insegnante di yoga e pilates, il quale mi introdusse a queste discipline, convincendomi a prendere le certificazioni. C’erano coetaneee e coetanei che lavoravano nei negozi e nei pub per mantenersi agli studi, io facevo l’istruttrice.

Lavori di serie A e lavori di serie B

Arriva, qui, un nodo delicato: la mia è una generazione cresciuta, per chi se lo poteva permettere, nell’idealizzazione del “lavoro per cui hai studiato”. Della credenza che esistesse un lavoro di serie A e un lavoro di serie B. Se i nostri genitori hanno vissuto nell’epoca del lavoro fisso, noi ci siamo cullati nella certezza che gli studi ci avrebbero aperto le porte di professioni prestigiose, stimolanti e appaganti. O almeno così è stato per me e per molte delle persone che conosco. Avevamo la possibilità di studiare e dovevamo onorarla con il dovere di fregiarci di titoli professionali rispettabili. Non volendo, il classismo aveva già messo radici in noi, non ce lo vogliamo dire ma è così. Io facevo l’istruttrice, ma era un lavoro di ripiego, io ero laureata in altro! Non importava che avessi studiato anche per quello, non era la laurea che avevo preso, ragionavo in termini di laurea magistrale (e master) > certificazioni fitness. Anche perché, lo ammetto, trovavo la maggior parte dei miei colleghi di allora un po’ tutti muscoli e niente cervello.

Il lavoro per cui ho studiato

Da quando inizio a fare l’istruttrice a quando smetto, passano più di dieci anni. Anni felici, eh, soddisfacenti, divertenti, ma sempre nella convinzione che dovesse ancora arrivare il mio momento, quello della donna in carriera con vestiti di laboratori artigianali e non sempre in tuta e felpa. Quello del “lavoro per cui ho studiato”. Nel frattempo ho preso un master, lavoricchiando contemporaneamente per i miei coordinatori, avvicinandomi a Instagram e creando un profilo che per qualche anno ha avuto un discreto seguito e mi ha permesso di provare, in minima parte, l’esperienza di quella che in futuro sarebbe diventata la figura del content creator.

Nel 2016 arriva la grande occasione, una mia amica che lavora per una start up mi contatta e, nel giro di un paio di mesi, lascio tutto: palestre, casa dove ho vissuto per anni, tutto. Finalmente il “lavoro per cui avevo studiato” si era accorto di me. Per un anno, forse anche due, mi sento come in una serie tv: colleghi simpatici, partite al computer nelle pause pranzo, aperitivi con le amiche che lavorano nei dintorni, tuta solo in rare occasioni, beer pong durante le feste aziendale, discorsi stimolanti, occasioni importanti. Sono un incrocio tra Silicon Valley e Mad Men. Vedi che ho fatto bene a prendere ‘sta laurea?

Foto di Shridhar Gupta su Unsplash

Poi alcuni colleghi cambiano, la società fa pivot e fa del suo business principale un settore interessante come il reparto viti di Leroy Merlin, arrivano degli altri colleghi con la prondità d’animo di una pozzanghera, ma sufficientemente miseri da farmi passare un intero anno di isolamento e e pianti al bagno. La strategia vincente, credo, sarebbe stata fare colloqui a tappeto e trovare di nuovo qualcosa di attinente “a quello per cui avevo studiato”, ma in questo sono un po’ carente. Tanto sono brava nei lavori che faccio, tanto non riesco a pensare più a niente se quel lavoro smette di corrispondere alle aspettative, entro in una spirale di vittimismo e delusione che mi impedisce di pensare a un piano alternativo.

Però una cosa la sapevo: avrei continuato in qualche modo a cercare quel fantomatico lavoro di serie A per cui avevo studiato. Spoiler: non l’ho trovato perché, guess what?, non esiste. Me lo avevano raccontato per anni, me le avevano raccontato le persone, me lo avevano mostrato nei film, ne ero convinta io: c’è un lavoro adatto a me, alle mie capacità e io lo troverò. Perché me lo merito, perché mi hanno detto che me lo merito.

Un job title per domarli

C’è un fatto, che a me proprio non va né su né giù. Quando io mi sono dimessa, non era ancora un tema caldo quello del lavoro e quindi io ho dovuto elaborare tutto da sola, poi a un certo punto non si parlava di altro. Grandi proclami sul fatto che il lavoro non ci definisce e poi “ecco il mio nuovo sito con i servizi che offro”, newsletter, video simpatici per ricordarci che “il lavoro non mi definisce, ma si da il caso che i love my job e che colleghi matti che ho”. Ok.
In maniera inconscia, perché sono sicura che la maggior parte delle persone non si rende conto di quale narrazione continui a portare avanti, esiste ancora una differenza tra lavoro di serie A (di cui si deve parlare, anche accennare, infilarlo lì) e un lavoro di serie B (su cui tacere se no ci abbassa il rating della bolla social). Sono pochissime le persone di cui non conosco il lavoro, un po’ perché effettivamente non è un argomento che ritengono di reale interesse, un po’ perché, in fondo in fondo, non è dignitoso dire che fai la commessa a quarant’anni, o la segretaria, o l’istruttrice (a meno che tu non abbia una tua attività ma allora lì si parla di imprenditoria). Nella cultura in cui Dawson voleva fare il regista e non il capomagazziniere, se non posso fregiarmi di titoli nobiliari quali “copywriter” o “digital strategist on the rocks”, la butto sulle passioni ed evito quanto più possibile di riferirmi in maniera chiara a come caccio i soldi per sopravvivere.

Foto di micheile henderson su Unsplash

Money

Cantavano i Pink Floyd: Money/get away/get a good job with more pay/and you’re OK.

Un’altra grande questione è quella dei soldi, perché, anche se sembra che nell’ultimo anno, se ne parli con molta più disinvoltura, la verità è che si tende a omettere qualche parte. Si tende a tacere su alcuni aspetti meno lirici, che però aiuterebbero a ridimensionare la situazione. E questo può avere un effetto più o meno profondo sulle fragilità delle persone. Io, che credevo di dover avere certe qualifiche data la mia laurea, quando non le ho raggiunte, mi sono sentita cretina a lungo. Non ero abbastanza brava, abbastanza esperta, avevo troppe esperienze alle spalle ma poca verticalità, cavolo tutti hanno lavori fichissimi e guardami!

L’impegno è uno degli animali fantastici

Ora, da una parte lo voglio ammettere: io non sono stata sufficientemente brava in alcuni ambiti e non ho sfruttato abbastanza alcune situazioni che mi avrebbero portato a mettere su LinkedIn un job title altisonante.
Ma avrei anche voluto che alcune storie fossero raccontate con più sincerità: faccio la consulente perché ho una casa in affitto che mi rende un’entrata sicura mensile. Sono un copywriter ma abito nell’appartamento di pora nonna morta, quindi non ho affitto né mutuo. Mi occupo di adv, ma ho venduto un rene quindi ho un po’ di soldi da parte.

Io, per esempio, ho potuto prendere certe decisioni, a volte anche frettolose, perché avevo dei soldi derivanti dalla vendita di una casa, un compagno che guadagna bene e una famiglia che mi sostiene. Mi sono anche impegnata tanto, ma l’impegno è un altro degli animali fantastici, esiste ma fino a un certo punto. L’impegno non è nulla senza le possibilità.

N.d.A: faccio riferimento a certe professioni perché io in quello mi sono laureata, se avessi fatto Medicina, prenderei altri esempi, non è una gara a quale categoria professionale sia migliore.

Cosa ci vuole dire l’artista

Io ci ho messo due anni e mezzo di terapia per non vergognarmi se ho fatto tante esperienze, se ho preso certificazioni diverse e frequentato altrettanti corsi. In questo periodo ho provato a sentirmi una donna di quarantatré anni con un solido bagaglio di conoscenze ed esperienze, anche se per ora prevale la parte di me che si vede garzone di bottega in attesa dell’approvazione del capomastro.

Conosco il pilates, come si struttura una strategia su Instagram, ho nozioni di metodologia agile e di editoria. Ho fatto anche la casalinga per un anno (lo scorso), quando cercavo di capire come potessi definirmi e sono ancora più convinta che il lavoro di cura vada retribuito, non dato per scontato perché si è sempre fatto (soprattutto se sei una donna).

Insieme alla mia terapeuta sono arrivata alla conclusione che tornare a fare pilates non è un passo indietro, anzi. Mi permette di mettere in pratica competenze che pensavo non c’entrassero nulla, come quelle imparate durante i corsi di project management. E mi lascia il tempo di dedicarmi anche ad altro.

Non ci sono lavori di serie A o di serie B, si può anche cambiare idea, laurearsi in Scienze della Comunicazione e scoprire che non è più la scelta azzeccata, si possono fare più cose insieme ed essere in grado di farle bene, si può fare lo stesso lavoro per vent’anni in maniera mediocre. C’è gente che è brava a cucinare e fotografare, c’è gente che scrive contenuti e io non le permetterei neanche di stilare la lista della spesa, c’è gente che vuole parlare del suo lavoro e gente che non si trova a suo agio nel comunicarlo attraverso certi canali.

Pensieri, parole, opere, omissioni

Alla fine ho scritto qualcosa per giustificare i soldi ad Aruba e l’ho scritto che è ancora il 31 dicembre. Magari qualche persona leggerà e si sentirà meno sola ad aver pensato certe cose, magari morirò stanotte perché non ho droppato una foto del mio ultimo viaggio.

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via Giphy

Post Scriptum

Dopo aver fatto leggere le mie memorie al mio compagno per un consiglio, ci siamo resi conto di quanto certi argomenti andrebbero sviscerati meglio e meriterebbero articoli a parte. Per esempio come avrei voluto vedere, allora, invece di Dawson’s Creek con tutto quel pathos e quella tensione a vivere la vita a duemila, un film come Paterson. Paterson è un autista di autobus che conduce una vita ordinaria, ma che ha anche una forte inclinazione alla poesia.

E poi avrei voluto anche raccontare di alcuni rimpianti che ho nella scelta del percorso di studi e di come, a vent’anni, avessi idealizzato un settore (quello del digitale) che poi, a quaranta, si è rivelato normalissimo. E io che immaginavo che mi sarei sentita la più stupida della stanza in mezzo a tanti Einstein, Oppenheimer, Fermi e Lawrence.

Di come avrei voluto darmi di meno della “stupida nella stanza”.

Ma come disse qualcuno: questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta.