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Put the fun in funeral come stile di vita

zucche, candele e delle mani che reggono qualcosa

C’è chi si impegna nella divulgazione scientifica, io metto the fun in funeral. Non lo so chi lo ha detto, è scritto su una calamita che ho comprato a New Orleans e che riassume in maniera quasi esaustiva me.

Short version per chi ha tempo ma non ha intenzione di aspettarlo e per chi proprio non ne ha: questo articolo non contiene buonumore. Allora perché leggerlo? Perché magari c’è qualcuno che come me simpatizza per la famiglia Addams e il suo approccio alla vita.

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via Giphy

Popolo di santi, opinion leader e amici di Mark Zuckerberg

Tempo fa c’è stato un malfunzionamento di tutte le proprietà di Mark Zuckerberg (per chi avesse stabilito un collegamento dal 1827, è uno dei fondatori di Facebook) e la mattina seguente la fauna mondiale rispondeva all’avvenimento con alcuni criteri.

  • Coerenza, quella che fa scrivere alla gente “quanto si è stato bene senza Facebook e Instagram” su Facebook e Instagram. Come quando vado a cena fuori due volte di seguito e annuncio che potrò bere pochissimo perché ho già dato la sera precedente e finisce con me che ballo sui tavoli;
  • Simpatia, nelle risposte di chi ci ha tenuto a sottolineare che non si era accorto del malfunzionamento perché “lavorava”. Wow, ci mancava “specchio riflesso”;
  • Acredine, di chi vorrebbe mollare tutto per aprire un baracchino di granita a Lanzarote e invece ha a che fare proprio con i social e con la capacità informatica dei clienti pari a quella di mia nonna;
  • Competenza, la dote migliore del popolo italiano. Ogni giorno un italiano si sveglia e sa che deve correre a dare la sua opinione, non importa se si tratta di carica virale, sistemi operativi o fisica quantistica. L’importante è scriverlo e far sapere di sapere.
Tifosi allo stadio che esultano
Photo by Hanson Lu on Unsplash

Scegliere di non provare nulla

Io me ne sono accorta di questo disservizio? Sì e nonostante questo sono riuscita anche a svolgere degli altri compiti. Ho provato il panico da isolamento? No. Sono stata felice dell’isolamento? Neanche.

Io non ho provato nulla, non ero né triste né felice, né coinvolta né distaccata, non me ne è fregato un emerito niente. Da qui ho ripreso una riflessione che è da un po’ che sto facendo e che vorrei essere in grado di mettere in pratica più spesso. Quando succede qualcosa, qualsiasi cosa, voglio chiedermi se mi interessa, dopodiché se conosco l’argomento, infine se voglio/posso esprimere la mia opinione, oppure condividere un pensiero che quell’avvenimento ha generato.

Come se ci fosse un’infografica

Se sapessi disegnare o usare dei programmi specifici, piazzerei adesso una bella infografica con anche dei disegnini molto carini. Ma non sono capace, quindi ecco qui uno schema artigianale fatto in casa per voi.

Succede qualcosa a livello
personale/nazionale/internazionale. Mi interessa davvero?
No. Non dico niente e vado avanti con la mia splendida vita
Succede qualcosa a livello
personale/nazionale/internazionale. Mi interessa davvero?
Sì. Ho le conoscenze per esprimere una mia opinione, oppure voglio chiedere un approfondimento, oppure questa cosa ha generato un pensiero che voglio condividere
Questo pensiero è rispettoso e/o almeno fa ridere, oppure è il solito “questo non è un aeroporto, non bisogna annunciare la partenza?”No, non dico niente e vado avanti con la mia splendida vita. Soprattutto se devo fare la battuta dell’annuncio
Questo pensiero è rispettoso e/o almeno fa ridere, oppure è il solito “questo non è un aeroporto, non bisogna annunciare la partenza?”Sì, lo è e no, non è un meme sentito e risentito, frutto di una mia incapacità di interagire con il prossimo senza doverlo schernire ogni volta. Posso parlare.

The car’s on fire and there’s no driver. Una canzone allegra

Perché ho scritto questo pilotto che non sembra azzeccarci nulla col mettere un po’ di fun in funeral?
Intanto perché ho dormito pochissime ore per via di un forte temporale che non mi ha fatto chiudere occhio. Poi perché davvero mi auguro di riuscire a intervenire nelle questioni solo quando mi interessa e non perché devo dimostrare qualcosa. Infine perché questa riflessione mi è scaturita da una canzone allegra come il parco di Salem che commemora l’uccisione per stregoneria di alcune persone.

The car’s on fire and there’s no driver at the wheel and the sewers are all muddied with a thousand lonely suicides and a dark wind blows.

The government is corrupt and we’re on so many drugs with the radio on and the curtains drawn.

We’re trapped in the belly of this horrible machine and the machine is bleeding to death

Ecco, a volte mi sento come in un’auto in fiamme e senza nessuno alla guida, intrappolata. Se non posso uscirne, almeno fatemi mettere un po’ di fun in funeral.

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Andare a fondo delle cose. Una guida superficiale

L'oceano dalla prospettiva di chi è dentro l'acqua

Una volta un amico mi disse: “tu non riesci ad andare a fondo delle cose, rimani in superficie”, stavamo parlando della mia tesi di laurea e lui se ne uscì con quella frase.

Da qualche parte, nei meandri della mia mente, quelle parole devono essersi annidiate e generato tanti piccoli xenomorfi di scarsa autostima. Ciò si traduce in una me bloccata costantemente in un limbo, altro che zona di sicurezza, per me nessuna zona è sicura, neanche la mia testa.

Una galleria di memorabilia a tema film di fantascienza. In primo piano una creatura aliena
Ank Kumar, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

Short version per chi non crede nelle dimensioni

Si parla del mio senso di inadeguatezza verso qualsiasi cosa, tranne il cibo e l’alcol. A mangiare e bere non mi ferma nessuno. E di Francesco Costa come nuova divinità, ma io sono atea.


Non si gioca con la scrittura

Ogni volta che penso di scrivere, queste sono le scuse che trovo e che mi impediscono di continuare:

  1. Non sono mica Steinbeck che la gente sta aspettando i miei testi;
  2. Non ho la più pallida idea di cosa significhino la metà delle voci su WordPress, il mio blog non è ottimizzato, dissinnescato, calibrato, pesato. Peggio mi sento! Non è accessibile e quindi sto sicuramente facendo un torto a qualcuno;
  3. Quello che scrivo, lo hanno già sviscerato ottantasette persone prima di me e meglio. Ma poi non vado a fondo delle cose, di che stiamo parlando?
  4. Non sostengo le aspettative, figuriamoci le critiche. Non ho abbastanza soldi per chiedere alla mia terapeuta di venire a vivere con me.

Questo ragionamento lo applico, con le dovute varianti, a qualsiasi aspetto della mia vita, soprattutto se si tratta di hobby. Anzi in quel caso divento ancora più immobile perché sento di non essere giustificata se dovessi fallire.

Il ragionamento è: non mi pagano per farlo, quindi posso evitare di farlo.

Instagram una volta era tutta campagna

Faccio un altro esempio, Instagram. Inizio a usare questo social nel 2013 per trovare un diversivo alla mia relazione di allora.

Questo avrebbe dovuto dirmi qualcosa sullo stato di salute di quella storia, ma l’informazione ci ha messo cinque anni per arrivare dal cuore al cervello. Detto ciò, ho cominciato a usarlo in maniera personale, raccontando aneddoti scemi e fatti miei. Ho conosciuto tanti posti, fatto cose, visto gente, ho tirato su un certo seguito ed è stata la mia isola felice per un sacco di anni.

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via Giphy

La sindrome dell’imbucata

Ma ecco la parte “terapia di gruppo”. A un certo punto sono stata notata da alcune persone e quelle persone devono aver pensato a loro volta che io fossi una persona valida sotto qualche aspetto.

All’inizio ero così lusingata dal fatto che personaggi di un certo ambiente mi seguissero, che con gratitudine ho iniziato ad allargare la mia cerchia a tutti loro.

Poi è arrivata l’ansia da prestazione, all’improvviso ero circondata da gente fichissima, gente nel digitale da 72 anni, attiva e operativa nelle situazioni più disparate, dal femminismo alle escursioni, dal menu settimanale agli abiti del festival del cinema di Venezia.

Ogni giorno una firma da apporre, una lotta da abbracciare, una causa per cui indignarsi, nuove divinità a cui rivolgersi.

Succede che qualcosa si rompe. Io che soffro da che ho memoria della sindrome della superficiale, di quella che deve dimostrare di meritare un invito alla festa del momento, mi sono rotta. Di testa, di entusiasmo, di energia, di scatole e ho fatto un passo indietro.

Pupazzo Lego in pezzi
Photo by Jackson Simmer on Unsplash

La divisa del liceo, vent’anni dopo

La mia terapeuta ultimamente mi ha detto di lasciare uno spiraglio aperto al mondo, credo che cominci a temere che diventi come Unabomber, con la mia casetta in qualche bosco di Rieti a progettare un attentato contro questa società che non mi ha capita.

La verità è che a me le persone piacciono, non tutte ma abbastanza, più che altro soffro la possibilità di non essere alla loro altezza.

Tempo fa ripensavo agli anni del liceo, quando frequentavo un classico molto rinomato di Roma.

Era un liceo pubblico, ma avevamo una nostra divisa, come è normale a quella età. Dr. Martens per la frangia più grunge, Clark per quella morettiana. Magliette comprate al mercato dell’usato e Barbour verde. No bomber no Fred Perry no Naj Oleari. Quella era roba da pariolini (persone della Roma bene, di una certa borghesia e orientamento politico) o fasci.

È successo che a quasi 41 anni mi sono sentita sopraffatta da una serie di meccanismi che mi riportano a un’inadeguatezza adolescenziale e la cosa più responsabile nei miei confronti che possa fare, è lavorarci su.

Memento mori: anche Francesco Costa fa la cacca

La domanda ora sorge spontanea: e al popolo di Milazzo?
Riprendo il filo da quello spiraglio che mi è stato detto di tenere aperto, pensando questo tentativo di scrittura come il mio modo di fare terapia offline e online. Ci sono tante persone che stimo che trovano la propria voce nel giornalismo attento di Francesco Costa o nelle riflessioni di cuore di Tlon, in una genitorialità sostenibile o in un’alimentazione rispettosa.

Io ringrazio per tutte queste voci che mi fanno conoscere una parte di mondo, solo che non è la mia e non è tutto il mondo, io a quarantuno anni non so che lavoro voglio fare da grande, figuriamoci se ho queste solide certezze come le Dr. Martens ai piedi della mia giovinezza.

Quando nel novembre 2019 mi sono licenziata dal “posto fisso”, mesi prima che si parlasse di generazione Yolo e l’umanità trovasse un’etichetta perché quello che non ha un’etichetta è ignoto e potenzialmente spaventoso, molte persone parlavano di me come una coraggiosa. Altre come di una privilegiata, ma di questo ne parleremo un’altra volta.

Io mi sono licenziata perché non mi sentivo più rappresentata. Quindi, caro Francesco Costa, tu sarai anche una persona eccezionale e un professionista di grande rilievo e io continuerò a leggerti (tanto ogni giorno, su Instagram, c’è qualcuno che ti condivide), ma io ora ho bisogno di altro.

Ho bisogno soprattutto degli incerti, dei pavidi, degli apolidi, delle vaschette di gelato dove invece ci sono i peperoni surgelati, dei vestiti senza etichetta che non sai se lavare a mano, con il prelavaggio, senza ammorbidente, coi fiori di Bach.

Mi riprendo il diritto di dire che una persona mi ha stufato anche se indossa le Dr. Martens come me, di averne abbastanza di chi ironizza sempre su tutto e di chi invece rende tutto epico, pure quando fa la spesa.

Mi riprendo il diritto di condividere o meno quello che mi va, se mi va, quando mi va senza paura di essere la bionda sciroccata che parla solo di argomenti frivoli.
Anche di essere quella lì e tutte le mie altre personalità.

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Ora che lo ho scritto mi sento meglio?

Beh non ho scrollato passivamente i social e non ho mangiato un pacco di patatine, buttalo via.

Si sentirà meglio qualcuno? Avrò aiutato il mondo a essere un posto migliore? Cambierò idea fra cinque minuti e mi chiuderò al bagno pensando che a 41 anni sono una fallita che non ha combinato nulla di memorabile nella vita? Lo scoprirò tra cinque minuti.

Piccola postilla pubblicità

No, non è proprio pubblicità, ma mi piaceva l’allitterazione. In questa mia fase di “rivendicazione della diversità pure se ci litigo”, condivido i nomi di due persone di cui apprezzo i contenuti che producono.

Una è Eleonora Sacco di Pain de Route, un progetto attraverso il quale fa conoscere meglio i popoli dell’Est. Con lei ho seguito un tour virtuale in Georgia, che mi ha talmente convinto da prenotarne uno dal vivo alla scoperta dei luoghi russi a Roma. Mi piace Eleonora perché mostra qualcosa di veramente diverso e perché si limita al suo campo. Dove “limitarsi” non è sinonimo di disinteresse verso il resto del mondo, ma è segno di cura e rispetto.

La seconda persona è Matteo Bordone, il cui podcast mi è stato fatto scoprire da una mia carissima amica. Non so assolutamente nulla di lui e avrei continuato a ignorarlo se non mi fosse stato indicato. È nel mucchio selvaggio dei podcast di Il Post e tratta argomenti vari con quella punta di cinismo e sorriso beffardo che non fa mai male. E ha una bella sigla.

Concludo con le parole di una sua puntata su Alessandro Barbero: questo non fa di lui un nemico del popolo e non fa di lui soprattutto un cattivo. Dietro a questa idea c’è una forma mentale di contrapposizione frontale e di schieramento continuo che ci ha abituato a prendere le persone che stimiamo e metterle nella scatola dei buoni, che è poi la scatola dei santi, perché accanto c’è una scatola nera dei cattivi e poi la scatola dei dannati.

Fino al 15 ottobre lo potete ascoltare gratis, poi diventa un contenuto (giustamente) a pagamento.

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Esiste una salute mentale migliore di un’altra?

tessere che formano le parole inglesi per salute mentale

La penultima volta che sono entrata su WordPress era dicembre 2020. Articoli scritti: mezzo; articoli pubblicati zero. Salute mentale: variabile in attesa di una possibile perturbazione.

Cercherò di farla meno lunga possibile, è stato un anno intenso, fatto di scelte, traslochi, crisi e io non sono brava nella gestione di questi aspetti quando avvengono nella mia vita privata. Tanto nelle questioni professionali ho la dedizione di un pilota dell’aviazione giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, quanto in quelle personali soccombo e tendo a fingermi morta.

Nel momento in cui sto scrivendo, l’argomento del giorno riguarda l’atleta statunitense Simone Biles che ha deciso di ritirarsi dalle Olimpiadi di Tokyo per concentrarsi sul suo benessere psicologico. Voglio spendere due parole sull’avvenimento; non solo trovo che sia un’ammissione lecita, ma, come molte persone, credo che la salute mentale sia ancora un ambito troppo poco esplorato. Rilancio pure: la salute mentale dovrebbe essere considerata qualsiasi sia la situazione che l’ha compromessa.

Mentre leggo i vari post che applaudono alla decisione di Simone Biles, mi chiedo se lo stesso effetto l’avrebbe sortito una persona qualunque che a un certo punto ammette con se stessa di non farcela più, senza nessuna pressione particolare addosso, senza pesi di alcun genere sulle sue spalle, rappresenterebbe comunque uno spunto di riflessione per qualcuno?

Non fare di me un idolo, lo brucerò

Nel 1994 usciva Ko de mondo, un album dei C.S.I. che conteneva una traccia intitolata A Tratti.

Non fare di me un idolo, lo brucerò. Se divento un megafono mi incepperò. Cosa fare non fare non lo so. Quando dove perché riguarda solo me. Io so solo che tutto va ma non va.

A parte il fatto che io potrei esprimermi quasi esclusivamente attraverso i loro testi, ma trovo particolarmente pertinente quella frase. I personaggi in vista che dichiarano le proprie emozioni negative sono un bell’esempio per chi ancora non riesce o non vuole esternare le proprie. È un buon punto di vista, ma è l’unico? E se paradossalmente mettessero ancora più ansia perché i loro crolli sono più “giustificati” di altri? Se in generale ci fosse una salute mentale di cui si può parlare e una salute mentale che non genera discussione?
Può sembrare farneticante come discorso, ma su di me, per esempio, le esperienze di persone famose hanno un effetto di condivisione minore di persone che conosco davvero. Tra le stesse persone che conosco, solo un’esigua parte è quella a cui rivelerei certe fragilità e non è una parte necessariamente composta da parenti o amici di lunga data.

Salute mentale, ma di chi?

Avevo iniziato con l’idea di scrivere del breve viaggio a Siracusa, poi mi sono resa conto che non entravo su WordPress dal 2020 e mi sono chiesta il perché. La risposta più vicina alla sincerità è: non ce la facevo e non ce la faccio più dell’indistinto brusio di cui canta Giovanni Lindo Ferretti, che non c’è niente che non vada eppure non va.

Sto a fatica abbracciando il fatto che io sto male in un modo che è mio e che posso scegliere se e come condividerlo. Sto venendo a patti che gli idoli da social mi mettono agitazione e non innescano alcun processo di identificazione. Che alcune parole e persone mi provocano rabbia, frustrazione e noia, anche quando stanno sedute dalla mia parte ideologica del tavolo. Che sdoganare il malessere è cosa buona e giusta, ma rispettarne le modalità è divino. Che il silenzio non è sempre ignavia, non siamo i commercialisti gli uni degli altri chiamati a sapere a chi va il nostro cinque per mille.

In conclusione, mi sono persa. Ero partita con un’idea e sono finita a dovermi ricordare che la condivisione non ha un’unica accezione e nessun attestato di partecipazione.

Post Scriptum

Scriverò di Siracusa, ma non è questo il giorno. Se però avete voglia comunque di evadere, c’è sempre un mio vecchio articolo su Palermo.

Polpi in mostra su un banco del mercato di Ballarò a Palermo. L'ho scelta per introdurre un mio vecchio articolo sulla città siciliana
Photo by Cristina Gottardi on Unsplash

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Di buoni propositi, piccoli passi e MVP

A luglio di questo anno mi è arrivata la solita email di Aruba che mi avvertiva del dominio in scadenza. Io non scrivo più qui da febbraio o marzo, ma ho pagato diligentemente il mio obolo per la stesso motivo per cui, ogni anno, provo ad affidarmi a qualcuno che mi faccia perdere peso. Li possiamo chiamare buoni propositi.

Oppure senso di colpa, una sorta di lettera scarlatta invisibile che mi ricorda a cadenza regolare quello che potrei fare e che, invece, scelgo di non fare. Seguire un’alimentazione corretta, per me che ho problemi con la tiroide e ho familiarità con malattie metaboliche, è quasi un imperativo. Senza contare che, quest’anno, per la prima volta dopo tante oscillazioni di peso, non mi entra la maggior parte dei miei vestiti. Non mi era mai capitato: per quanto prendessi o perdessi peso, sempre quella taglia mi entrava, a volte con più fatica, a volte come un guanto.

Il concetto di Minimum Viable Product

Fatto sta che ieri (o forse l’altro ieri, non lo so, ho già perso il filo del discorso) ho letto un post su Instagram di una ragazza che seguo con piacere, Tamara Viola, che stilava un elenco di “buoni propositi”, o meglio di cose da fare/da provare a fare per migliorare la sua vita. Tra i vari punti, c’era smettere di pensare troppo e agire di più, provare a fare piccoli passi, anche microscopici, ma farli. Che è una di quelle cose che potremmo far finire nella categoria “grazie al cazzo”, ma che invece ogni tanto vanno ricordate. Anzi, di solito succede che, se un’altra persona dichiara di sentirsi come me, io mi sento meno inadeguata.

Insomma, un po’ di questo e un po’ di quello, mi hanno portato a riprendere in mano il concetto di MVP. Dice che è? La faccio semplice perché se no finisce che mi distraggo e smetto di scrivere per altri sei mesi. Dicesi MVP, o minimum viable product, il prodotto minimo funzionante che andrebbe tirato fuori per testare la bontà della propria idea. La sto riducendo all’osso, ma lo farò ancora di più. Invece che arrovellarsi se un prodotto o servizio piaceranno, perdendoci sopra anni di vita per ipotizzare ogni scenario possibile e ridurre le perdite, sarebbe opportuno uscire con una versione del prodotto/servizio base per cominciare a testare se praticamente può funzionare.

Meno male che la dovevi fare breve

Mi sento come una persona anziana a cui si chiede di raccontare un aneddoto e quella inizia dal Big Bang. Tornando al mio caso specifico, cosa posso fare di pratico per capire se vale la pena continuare a scrivere, oltre a pagare il dominio per senso di colpa?

Scrivere, appunto. Al di là delle opinioni altrui, su cosa genera revenue nel 2020 e cosa no (bello eh, non sapevo dove ficcarlo e ho deciso che qui ci stava proprio bene). Se sia opportuno tenere un blog oggi, se questa è la società dell’immagine, dei video, degli slogan, di “tanto la gente non legge più”. Ecco, ogni tanto mi ricordo che queste opinioni non vivono con me, non si chiudono la porta alle spalle la sera e si siedono sul divano con me. L’unica persona che lo fa, perché con me ci vive veramente, è il Dottore, la cui frase preferita, dopo “ti amo”, è “perché non stai scrivendo?”.

Daje con i propositi di settembre

In realtà avevo iniziato questo articolo pensando di condividere un racconto che ho scritto tanti anni fa e che mi piace ancora. Sono finita a parlare di altro, ma per oggi il mio MVP l’ho tirato fuori. In più mi è rimasta ancora la carta “racconto” per un prossimo articolo. Magari se salgo sulla bilancia scopro che ho perso un etto. E come propositi per questa prova generale di anno nuovo, mi sembra che ci siamo.

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2019. Una non lista di buoni propositi

Ho pensato a lungo se partecipare anche io al tradizionale resoconto dell’anno che sta per concludersi così da fare posto ai prossimi dodici mesi nuovi di zecca e la risposta, mi sembra evidente, è stata perché no?
In verità vi dico che sto attraversando una fase di indolenza che mi avrebbe fatto desistere se 1) il Dottore non mi avesse minacciata di cose indicibili che comportano una perdita di sangue, se non avessi preso in mano il computer e 2) alla fine tirare le somme fa sempre un gran bene. Quello che ieri era il diario segreto, che a rileggerlo oggi fa morire dal ridere, oggi è un post, un blog, una newsletter. In tutti questi casi serve a prendere le distanze dalle esperienze, a fermare i momenti, a seguire il percorso che uno ha fatto, a condividere, a consigliare, ad aiutare.
Mai come quest’anno ho letto tante newsletter e articoli di blog, sono passata di palo in frasca dall’ascoltare un podcast sul potere emotivo del cibo, a leggere un post su Instagram. Ecco, il 2019 è stato l’anno in cui ho ricominciato a scegliere me; so che si dice spesso quando si scrivono cose per salutare il vecchio anno, ma io ho letteralmente scelto me. E nello scegliermi, ho scelto anche chi doveva accompagnarmi in questo cammino, a livello figurato e fisico.
Ho scelto, per esempio, Gianluca Diegoli, un uomo del marketing con una capoccia così, il quale nella sua ultima newsletter scrive: “… a fine anno si fanno i bilanci, di solito accompagnati da previsioni ma soprattutto da obiettivi. Per fare bilanci però ci si deve essersi fissati degli obiettivi: e io – come persona – non ho mai avuto granché voglia di fissarmeli. Un peccato, perché deve essere bello dire “wow, obiettivo riuscito”. Avere la risposta pronta a come sarai tra cinque anni. Cose così.”. In pochissime parole ha riassunto il mio anno.
Io non sono qui a riportare un bilancio del 2019 perché gli obiettivi che avevo ho dovuto modificarli in corsa. Il che non significa non avere ambizioni o progetti, ma vuol dire sapere quando essere indulgenti con se stessi. E io che non lo sono di natura, con me stessa soprattutto, sto imparando come fare.
Un’altra persona che seguo sui social, Myriam Sabolla, in un post recente su Instagram scrive: “Mi dispiace non essere sempre il role model che altri si aspettano da me. Che io stessa mi aspetto. E voglio imparare a farmene una ragione, e anche a raccontare che non tutto è rose e viole, nella vita.”.

Sul finire di questo anno, ho dovuto lasciare andare le aspettative di me e su di me per aprire le porte all’imperfezione.
A novembre, appena tornata da uno dei viaggi più belli della mia vita finora, mi sono dimessa. L’anno scorso concludevo il mio anno scrivendo del ruolo da team leader che mi era stato affidato all’interno della mia azienda. Come dice Valentina Aversano nel suo podcast Pesto, “si può essere altro, si può essere di più, di meno, dipende”. Questa cosa bisognerebbe ripetersela come mantra ogni giorno per non dimenticare che le cose non sono immutabili e scolpite nella pietra, ma possono e devono cambiare. Io ho iniziato il 2019 coprendo un ruolo che non avevo mai fatto, che mi ha portato a tanto dolore quando pensavo di non essere all’altezza e a una gioia incontenibile quando venivo ringraziata dal mio team per quello che stavo facendo.

Succede poi, come in amore, che il rapporto venga messo in discussione, perché cambiano le prospettive, gli obiettivi, i valori. Allora si può provare a resistere, a stringere i denti, a fare un passo indietro per non dare un calcio avanti, ma a un certo punto bisogna lasciare andare. Non tutti i rapporti valgono la pena di essere combattuti per tenerli in piedi. Alcune volte bisogna solo avere l’onestà di dire “questo non fa per me”.
Non è stata una decisione semplice, né una scelta presa sull’onda delle emozioni. Mi sono confrontata tanto e a lungo con tutta una serie di persone su cosa fosse meglio per me e alla fine mi sono lasciata indietro quel lavoro che tanto mi aveva dato dal 2016. Hanno influito sulla mia presa di posizione alcuni fattori non irrilevanti. Su tutti la presenza di un compagno di vita che si è dimostrato disposto a sacrificarsi pur di vedermi felice e di questo sono incredibilmente grata; non tutti possono dimettersi perché possono contare sullo stipendio dell’altro. So che se fossimo stati in difficoltà economica io questa scelta avrei dovuto rimandarla, ma dopo tanto discutere abbiamo convenuto che data la situazione di cassa, potevo permettermi di volere qualcos’altro.
Nonostante l’amore di questo ragazzo così giovane e così determinato, ci sono stati e ci saranno momenti in cui io crollerò e lui dovrà sostenermi non solo economicamente. Ho pianto a singhiozzi una domenica sera quando ho realizzato che il giorno dopo non sarei andata a lavoro. L’ho fatto di nuovo quando ho dovuto chiedergli dei soldi per una spesa che pensavo avrei dovuto affrontare. Dimettersi, come lasciare una persona, come qualsiasi altra scelta che compiamo, non è tutto rose e fiori. C’è l’umiliazione, la paura di essere troppo grandi e mai all’altezza per rimettersi in discussione, il senso di colpa.
Qui entra in gioco il secondo fattore: l’ambiente. I colleghi hanno una parte fondamentale nella nostra vita lavorativa, considerando che a volte li vediamo più spesso delle nostre famiglie. Fino a un certo punto i miei colleghi erano veramente fighi e alcuni lo sono rimasti, ma non era sufficiente. Sarebbe come pretendere che una coppia rimanga insieme perché guarda qualche serie tv insieme. Alcune delle persone che sono state assunte da un certo periodo in poi, si sono rivelate manipolatrici, arroganti e oltre tutto poco stimolanti. Succede. Ho pensato anche se fosse il caso di scriverlo o meno e poi mi sono risposta che sì, si può essere onesti a volte. Anzi bisogna esserlo e dire che non è vero che: “tanto tutti i lavori sono uguali, che ti credi pure dalle altre parti trovi lo stronzo”. Maddai!
Ma sempre per tornare alla mia metafora preferita, quella di una coppia, è come costringere due persone a rimanere insieme perché “tanto pensi che con un altro/altra sarebbe diverso?”.
Purtroppo le persone con cui stavo a più stretto contatto non si sono rivelate in grado di insegnarmi qualcosa o di apprendere qualcosa o di sostenere un discorso che andasse oltre le battute da osteria. Quindi voglio scriverlo perché magari qualcuno possa trovare conforto nelle mie parole: io me ne sono andata principalmente per cercare la mia strada, ma anche perché alcune persone sarebbero state da prendere a testate sul setto nasale. So che mamma non approverà quanto scritto e non solo lei, ma ragazzi, ho deciso che tra i miei valori ci dovrà essere sempre di più l’onestà.

A questo proposito, tornando a quanto scritto più su, nella ricerca di questa strada più mia, ho cominciato a frequentare persone che invece potessero contribuire in maniera più positiva alla mia vita.
Sono stata seguita da una mia amica in un percorso di counseling (sì Emma, sto parlando proprio di te) che mi ha aiutata tanto a fare chiarezza in quell’ammasso informe di paure e frustrazioni che mi stavano tenendo bloccata nello stallo alla messicana in cui mi ero infilata. Sì perché oltretutto io non sono granché capace a cercare lavoro mentre lavoro. Ho lasciato la mia azienda senza un piano B. Emma ha avuto un ruolo fondamentale nel tenermi la mano su questo nuovo cammino.

Quando si è infelici, di solito vengono emessi molti segnali, più o meno consci. L’abbrutimento che si era impossessato di me in conseguenza all’insoddisfazione professionale, ha portato a una serie di effetti, tra cui l’instupidimento. A un certo punto mi sono chiesta se non fossi diventata irreversibilmente stupida; non leggevo più, non scrivevo abbastanza, non mi interessavo alle cose. La mia attività principale era tornare a casa e stordirmi con Netflix. E pensare che da ragazza ero una lettrice vorace, cosa di cui si stupivano anche i professori. Io ero quella che al liceo fece il tema migliore dell’istituto, tanto da meritarmi la stretta di mano del presidente della commissione.

Poi vengo a conoscenza di un gruppo di lettura di Roma, Strategie Prenestine, che si incontra una volta al mese per proporre un libro da leggere tutti insieme. All’inizio neanche ci volevo andare per non trovarmi di fronte a gente preparatissima dovendo ammettere che io ero lì per essere curata da questa mia apatia intellettuale. Sono andata, ho iniziato a leggere i libri proposti mensilmente come compito da fare, ho continuato scegliendone di mia spontanea volontà, ho conosciuto delle persone veramente in gamba, con alcune ho iniziato a scrivermi, a confidarmi. Di questo ringrazio le fondatrici Valentina Aversano e Carola Moscatelli, per avermi rassicurato che non stavo diventando stupida.

Le persone, dicevamo, che fanno sempre la differenza. Ho rinsaldato ulteriormente i rapporti con i miei amici di sempre, alimentato quelli freschi, iniziato a conoscere persone nuove. Ho cercato chi mi sembrava mi potesse far crescere, non solo a livello professionale, ma umano. Ho perdonato e ho visto perdonare. Sto provando a perdonare me stessa di non essere perfetta, di essere fallibile. Mi sto circondando di persone che sappiano ricordarmelo, con cui confrontarmi, da cui apprendere.

Siccome sto perdendo il filo del discorso da quando ho iniziato a scrivere perché i pensieri e i sentimenti si affollano per essere appuntati, riassumo dicendo che il 2019 è stato pieno di persone. Come ho già detto altrove, se potessi scriverlo sul curriculum, metterei “Agnese Iannone. Nata a Roma il primo dicembre millenovecentottanta. Amata moltissimo”.
Quindi le persone, ma anche tutto l’amore che sono riuscite a trasmettermi in questo anno di crisi. Non è scontato, ma l’amore lo vedi dalla fine, non dagli inizi. Perché siamo tutti bravi nell’essere amichevoli e comprensivi quando le cose vanno bene, ma quando le strade si dividono, cosa rimane?
In questo 2019 ho visto coppie di amici, anche di lunga data, lasciarsi. Ho visto gli atteggiamenti cambiare, la rabbia sostituire il rispetto e ho pensato a quanto è facile puntare il dito e sgomitare per sedersi sul trono della “parte lesa”. L’ho visto fare nella vita lavorativa e in quella privata, giudicare senza mai mettersi in discussione. Sottolineare le mancanze e addossare le colpe.
Per fortuna per ognuna di queste, esistono persone che sanno ringraziare, sanno essere riconoscenti, sanno andare avanti in maniera sincera. Agli amici che stanno soffrendo per una storia finita, ai colleghi che rimangono tali anche quando le strade si dividono, a me che dovrò ancora lavorare sulle mie paure voglio ricordare di circondarsi di persone valide, oneste, compassionevoli, stimolanti. Che esistono e non bisogna mai smettere di pretendere perché “tanto dalle altri parti è uguale”. Non è uguale, non credeteci.

In conclusione, sperando di aver mantenuto un discorso non del tutto farneticante, come dice il buon Gianluca, non faccio bilanci perché non mi ero posta degli obiettivi. Ero partita team leader e mi sono dimessa. Ho fatto un viaggio bellissimo in America che considero un po’ la nostra luna di miele. Ho ricominciato a leggere, a scrivere, ho tenuto un bullet journal, sono andata a trovare gli amici su e giù per l’Italia. Ho un cucciolo di fidanzato che ogni volta mostra la dignità di un re e mi ricorda di comunicare, sempre, con tutti. Ho organizzato un Capodanno D&D con mia sorella e il ragazzo. Non ho speso tutti i soldi della liquidazione ma lo farò per qualche corso che ho già adocchiato. Ho una famiglia che mi ama. Ho degli amici che mi amano. Anche quest’anno ho accumulato tanto di quell’amore che potrei passare il 2020 in un eremo ma corca’ che lo farò perché voglio festeggiare i quarant’anni. Non ho un lavoro e al momento sto cercando di capire cosa dove perché. Ho qualche idea ma niente di serio. So che a questo punto della mia vita, posso dire cosa non mi va di fare. Non mi va di svegliarmi la mattina “tanto a fine mese mi pagano”. Non mi va di accettare qualsiasi cosa perché un lavoro è un lavoro. Non mi va di circondarmi di persone che contribuiscono alla mia vita con lo spessore di un filo che penzola da un bottone.  Non mi va di rimanere ferma per la paura di essere fuori tempo massimo per fare qualsiasi cosa, perché alla mia età hanno già tutti scritto un ebook, fatto dieci anni come consulenti nell’azienda prestigiosa, sono freelance affermati e sanno tutto di SEO, SEM e altre parole in libertà.

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Il mio 2019 finisce con tante sbavature, cose che non so fare, cose che devo ricominciare a imparare, ma con qualcosa che era da tanto che non mi permettevo, il tempo per farle.

 

Lifestyle

San Gemini Palace. Momenti di non trascurabile felicità

Antonello Venditti cantava che “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Il mio rapporto con la scrittura è un rapporto di amore e odio, fatto di lunghe pause di riflessione e improvvisi ritorni di fiamma.

D’altronde come ogni rapporto, anche questo va coltivato e nutrito affinché si mantenga in forma. La scrittura va allenata e alimentata, bisogna trovare il tempo per mettersi lì a raccontare una storia, bisogna avere voglia anche quando c’è una scusa pronta dietro ogni angolo. Lavoro troppo. Devo fare la spesa. Durante il weekend voglio solo fissare il muro davanti a me possibilmente senza perdere la posizione orizzontale. E così le storie passano in silenzio, si leggono quelle altrui e dopo un po’ diventa tutto uguale: il racconto di un viaggio diventa identico a uno politico, le esperienze si appiattiscono e io devo smetterla di riprendere a scrivere dopo avere fatto il rewatch della prima stagione di True Detective!

Ma torniamo al momento subito prima di diventare nichilista. Sono le cinque del primo pomeriggio domenicale di sole dopo settimane di pioggia e io sono di fronte al computer dopo sei mesi in cui ho toccato la tastiera solo per lavoro. O per controllare il meteo. O per cercare qualche albergo. Avrei continuato a percorrere volentieri questa rassicurante via dell’accidia ma il Dottore mi ha messo a fare i compiti. Sono settimane che mi esorta a fare qualcosa per me, qualcosa che mi piaccia fare altrettanto che mangiare ma senza quel piccolo inconveniente dell’ingrassare. Quindi ora sono qui, a digitare lettere a caso perché so che se mi metto a scrollare sul cellulare, lui se ne accorgerà e mi chiederà spiegazioni, mentre io sono una diva del muto mancata che si sta aggrappando alle tende della sua esistenza invece che spalancarle e far entrare la luce. Bella questa, me la devo segnare.

Perciò, ecco, sto scrivendo dopo sei mesi come esercizio. Se non vado neanche in palestra, che qualcosa in me almeno sia allenato.

Sono successe così tante cose in questi sei mesi che se non comincio da qualcosa di semplice, mi arrotolo nel piumone che ancora non ho tolto e mi metto a guardare video di Scottecs su Youtube. Quindi racconterò di una gita fuori porta breve ma intensa a cui ho preso parte questa settimana e che richiede un piccolissimo sforzo di memoria perché, appunto, recente.

Apro una parentesi, poi l’ultimo che esce si ricordi di chiuderla. La scrittura richiede memoria e io in questo momento ho la soglia dell’attenzione di chi ha votato la Lega al di sotto di Vercelli. Ma anche di quelli al di sopra, come vi è venuto in mente?

Ma non perdiamoci. Come sapete, o come non è necessario che sappiate, ogni tanto faccio delle collaborazioni grazie al mio profilo Instagram e alle conoscenze che si sono venute a creare. All’inizio della mia avventura con questo social, quando ancora era tutta campagna e l’influencer marketing era un territorio inesplorato, tendevo ad accettare tutto. Come quando uscivo con gli uomini a vent’anni vs. ora che ne ho 38 e il tempo da perdere si è drasticamente ridotto. Prima esci un po’ con cani e porci, poi affini la sensibilità e cominci a porre dei paletti: che non sia razzista, che non sia fascista, che conosca gli Smiths, che guardi le serie piene di sangue, assassini, gente mutilata.

Detto ciò, anno domini 2019, se mi capita qualcosa che voglio veramente fare, mi ci butto a capofitto. In particolar modo se si tratta di cibo.

Vengo contattata qualche tempo fa per scoprire il ristorante gourmet e la nuovissima struttura del San Gemini Palace. Leggo l’email mentre sono in pausa pranzo, mi chiedono se sarei interessata a fare un’esperienza in questo luxury hotel e di fargli sapere cosa ne penso. Vediamo un po’, cosa ne penso di staccare per due giorni dal lavoro, in uno dei periodi più stressanti della mia vita, per mangiare e dormire in un cinque stelle? Anzi che non mi sono messa in macchina appena finito di leggere l’email.

Il San Gemini Palace è un piccolo gioiello incastonato tra i vicoli dell’omonimo borgo, un piccolo e confortevole hotel composto da poche e curatissime camere, un ristorante raffinato, una spa e tutto l’occorrente per rilassarsi nel silenzio delle colline umbre. Il paradiso o uno dei possibili paradisi dove passare qualche ora della propria vita.
Mettiamo subito le cose in chiaro: non è un posto alla portata di tutti. Non è una pensione a conduzione familiare, non è un ostello da ragazzi in interrail (a proposito, ma esiste ancora l’interrail?), non è una struttura dove fermarsi alla bisogna. Questo hotel è un posto a cui dedicarsi intenzionalmente, è come farsi le coccole tra le lenzuola fresche di bucato attardandosi a letto invece di mettere su una lavatrice. Un lusso, nel vero senso della parola.

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Arriviamo in un pomeriggio piovoso e la prima cosa che mi colpisce è il calore degli arredi, dei muri in pietra, dei sorrisi di chi ci accoglie. Entrare lì è come lasciarsi avvolgere dal cotone, tutto diventa ovattato e si crea una morbida barriera contro la vita quotidiana. E questo è solo l’ingresso. Poi ci sono le camere che meritano un capitolo a parte. Senza neanche bisogno di dirlo ma lo dico comunque, lo spazio di ogni camera è veramente sfacciato, il letto così ampio che ho avuto paura di perdermi tra i cuscini e non trovare più la strada di casa e il bagno largo abbastanza da contenere anche un pouf. Un pouf capito? Tante volte si volessero intavolare conversazioni mentre uno si sta facendo il bidet e l’altro non sa dove sedersi ma ha urgenza di parlare.
Ora, io ho una passione per i bagni. Cucine e bagni sono i miei locali preferiti in assoluto. La cucina perché è la stanza in cui la mia famiglia tuttora si raduna quando ci incontriamo; anche se c’è un comodissimo soggiorno, noi ci ammassiamo in cucina. Sulla mia passione per il bagno non ho mai indagato abbastanza, ma tant’è.
Il bagno in questione, poi, è decisamente a cinque stelle. Ci sono asciugamani ovunque, accappatoi morbidi e ciabattine ordinate nelle loro confezioni di plastica in attesa di essere scartate. Ci sono due lavabi, ognuno con il proprio spazzolino, il dentifricio e la versione da viaggio di collutorio. C’è il set da barba per lui. La doccia è grande quanto il mio di bagno e se all’improvviso sorge la necessità di esfoliazione, c’è anche un guanto per lo scrub.
Last but not least, in camera c’è l’occorrente per preparare un tè delle cinque, un caffè orientativo o un aperitivo prima di andare a cena. Tutto compreso.

Immaginate quindi la mia voglia di uscire fuori da quella stanza quando avevo ancora da aprire tutti i barattoli di shampoo, provare il guanto per lo scrub e abbracciare ogni cuscino. Il punto è che quando ti invitano nelle strutture o ti inviano prodotti da provare, il fine ultimo è far conoscere quel servizio/prodotto. Peccato che io viva qualsiasi cosa con la stessa disinvoltura con cui mi sono presentata all’esame di maturità e questo, se da una parte può essere un bene perché mi spinge a cercare il massimo della professionalità, dall’altra mi fa sentire fuori posto in quasi metà delle situazioni. Nella fattispecie, cercherò di riassumere la situazione che mi si stava presentando in una pratica top five:

  1. Io avevo un paio di jeans neri, una giacca nera per la cena e delle scarpe di H&M del 1922, lise in punta e nere. Mercoledì Addams con l’unica nota di colore data dai miei capelli biondi. Il resto della comitiva, composto per la maggior parte da gente esperta nel settore beauty/fashion, si era portato dietro: un vestito per la cena, uno per il dopocena, uno se Giove fosse entrato in trigono con Urano, uno nel caso si trovasse in transito nel Sagittario. Io mi ero dimenticata pure gli orecchini.
  2. Io scatto solo con il cellulare perché sono una nostalgica del social che fu, lì il meno attrezzato aveva il ring luminoso per fare i selfie.
  3. Il peso corporeo dell’intera compagnia a malapena sfiorava il mio.
  4. Le donne avevano la piastra, il ferro arriccia capelli, l’alabarda spaziale, mentre io, uscita un attimo sotto la pioggia, al rientro sembravo una tossica in cerca di riparo.
  5. Non mi ero depilata e c’era la spa.

Per fortuna i ragazzi con me erano tutti organizzatissimi ma anche molto collaborativi, il che mi ha permesso di sentirmi a mio agio per la maggior parte del tempo. Tranne quando mi sono state fatte alcune foto la mattina dopo e mi sono ricordata che io odio farmi fotografare. Bellissime foto senza dubbio, ma io avevo una canottiera e i tatuaggi in vista. Nella mia testa sarei dovuta sembrare una Suicide Girl: bella dannata e un po’ lasciva tra le coperte di quel letto. Invece sembrava un servizio su uno di quei buzzurri di Casapound che protestava a Torre Maura.

Torniamo però a noi. Dopo aver fatto un breve giro per i vicoli di San Gemini per quanto permesso dal meteo e aver fatto una veloce visita alla spa, indossata la mia divisa d’ordinanza da Impero Galattico mi dirigo verso il ristorante.
Siete mai stati in compagnia di gente social? Come posso spiegarlo, è come stare sul set di un film porno: vuoi fingere rilassatezza, ma hai tutti intorno che ti guardano. O che guardano il tuo profilo Instagram. E prima di arrivare al clou della scena, ci vuole un po’. Quando vi trovate tra “influencer” e vi dicono di andare a cena, conoscerete il vero significato dell’espressione “tra il dire e il fare”.
Intanto ci sono le foto pre cena, quando hai ancora la forza di tenere in dentro la pancia e il trucco non è colato. Le ragazze intorno a me erano fatte della stessa sostanza di cui sono fatti gli hentai. Schiene nude, spalle scoperte, capelli morbidi e la scioltezza di chi davanti a un obiettivo sa come muoversi. Io la naturalezza di una burrata appoggiata su un divano.

Finalmente ci sediamo a tavola e lì sono nel mio ambiente. L’atmosfera è rilassata e ospitale, non c’è la rigidità di certi ristoranti blasonati dove non sai se quel coltello servirà per tagliarti le vene o tagliare qualche filo d’erba in salsa di rafano. Questa è stata una componente fondamentale dell’intero soggiorno: il San Gemini Palace è un hotel di classe che però mantiene una dimensione intima dove potersi sentire veramente accolti.
Lo stesso chef, che propone una cucina innovativa nella tradizione, si rivela una persona garbata che puoi incontrare la mattina mentre va al mercato a comprare gli ingredienti del giorno.

La cena è composta da dodici portate che spaziano dal plancton al piccione, dallo spritz al foie gras, per un percorso enogastronomico che coinvolge tutti i sensi. Il palato gioisce al gusto morbido dell’uovo al tartufo, il tatto si diverte a rompere la lastra di Campari, l’occhio ammicca di fronte ai colori del risotto allo zafferano e crema di zenzero, l’olfatto ringrazia per il profumo rassicurante della lasagna e l’orecchio si rilassa al suono del vino versato nei bicchieri scintillanti.
Per me il cibo è una religione e io lo onoro rimandando dietro i piatti vuoti.

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Finisco la serata sull’enorme letto, vinta dalle troppe emozioni.

Il giorno dopo continua a piovere ma per noi le sorprese non sono finite. La sala che la sera prima ospitava il tavolo imbandito per la cena, ora offre una delle colazioni più belle mai viste. C’è così tanto cibo che non so se mettermi a piangere o ficcare i cornetti nelle tasche dei pantaloni. C’è il dolce da raffinata pasticceria e il salato della tradizione umbra, frutta fresca, frutta secca, sembra di stare alla corte di un qualche re che vuole impressionare i suoi ospiti. E ci sta riuscendo. Le promesse della sera prima – domani mica lo so se ce la faccio a fare colazione – si infrangono sulla pastafrolla delle crostate e scopro che il mio stomaco è soppalcato.

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È quasi giunto il momento dei saluti, ma prima alcuni di noi riescono a trovare il tempo di fare qualche foto. Anche io, che con sprezzo del pericolo e sguardo fiero rivolto al nemico, mi metto in costume senza essermi depilata e di fronte a due ragazze bellissime, magrissime e con 25 cambi d’abito. Ma più che la dignità, può la suite presidenziale che ha la vasca idromassaggio interna con vista sulle colline. Anche una dura e pura come me ha lasciato a terra la timidezza insieme all’accappatoio e si è goduta questo momento di sfrenato relax.

 

Finisce così la mia esperienza a cinque stelle al San Gemini Palace, ma prima di far passare altri sei mesi da quando il Dottore mi guarderà e mi dirà “vuoi scrivere?”, vi lascio con alcune considerazioni.
Intanto sull’importanza del concetto di accoglienza che le strutture ricettive non sempre ricordano di dover portare avanti. Questo hotel è a tutti gli effetti un cinque stelle ma senza essere spocchioso o distante. Costa, è vero, ma vale ogni soldo speso per l’esperienza a 360 gradi che ti permette di vivere e per l’accoglienza genuinamente calorosa.

Una riflessione, inoltre, va fatta sull’influencer marketing. Ancora oggi si tende a credere che i numeri siano quanto di più affidabile ci sia in circolazione, dimenticando che qui non si parla di matematica, ma di coinvolgimento e stima del proprio pubblico. Mettere i brand in mano a gente che ancora non sa distinguere un apostrofo da un accento, svilisce il brand stesso. Chiamare una persona perché ha un seguito di quarantamila follower non meglio identificati, non è sinonimo di successo. Ho visto gente sponsorizzare prodotti senza mai aver mostrato interesse, attitudine o compatibilità con quel prodotto. Ho visto farlo per il gusto di dire “vedi, c’è qualcuno che mi pensa”. Ho visto campagne su Instagram senza alcun piano editoriale, senza uno straccio di strategia, venti influencer che pubblicano lo stesso contenuto alla stessa ora e quel contenuto andare perso, nel tempo, come lacrime nella pioggia.
Quindi un applauso va a chi resiste, da una parte o dall’altra della barricata; a chi usa il mezzo con intelligenza, a chi riconosce un congiuntivo e non ha paura a usarlo.

Infine un ringraziamento va a chi, là fuori, ancora resiste e crede nel cambiamento, brand, aziende, utenti, influencer, agenzie, amici, nemici, differentemente amici. Alla prossima puntata!

 

Lifestyle

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.

 

 

Lifestyle

Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così

Correva l’anno 1997 e io vedevo per la prima volta il Consorzio Suonatori Indipendenti in concerto. Non ho granché memoria di quel live, troppo intenta a baciare il ragazzo che frequentavo allora.
Da quella data sono passati anni, fidanzati, lingue e tagli di capelli, solo alcune incrollabili certezze non hanno vacillato sotto le granate del tempo: la fede politica, quella religiosa e Giovanni Lindo Ferretti.
In verità vi dico che se Cristo si è fermato a Eboli, il mio ricordo musicale non si è mai mosso dai CCCP e i CSI. Tutto quello che è venuto dopo, l’ho saltato a pie’ pari.

Quando mia sorella mi dice che Giovanni Lindo Ferretti sarebbe venuto in concerto, all’inizio ho esitato. Mi sembrava di rovinare la memoria dei tempi che furono, quando ero giovane e carica di speranze e durante l’occupazione, al liceo, cantavamo “Punk Islam”. Tornare a sentire un’icona della mia adolescenza, avrebbe assomigliato alle rimpatriate tra compagni di classe, dove si fa la conta di quelli che hanno avuto successo, quelli infelici e le rughe a sostituire i sogni.

Poi la sorella infingarda di cui sopra, mi manda la scaletta del concerto e a quel punto, di fronte alla promessa di “Tomorrow”, non ho potuto rifiutare.

Arriviamo al locale con netto anticipo rispetto all’inizio del concerto e notiamo con piacere che l’età media è quella delle rimpatriate scolastiche. Siamo tutti seduti, qualcuno sbadiglia, l’aria che si respira è quella rilassata di chi non ha più niente da dimostrare.
A questo proposito apro una parentesi, ma la chiudo subito ché abbiamo tutti un’età e la cervicale non reagisce più tanto bene. Quando hai superato abbondantemente gli enta e qualcuno pure gli anta, le serate che iniziano dopo le 21.30 cominciano a diradarsi insieme ai capelli. Prima, alle undici di sera, stavi ancora scegliendo il vestito giusto e se arrivavi in discoteca a mezzanotte eri il perdente della situazione. Più passano gli anni e più l’after viene sostituito dall’aperitivo, i vodka e Red Bull da una bottiglia di vino e il trucco tenuto sul viso per due giorni da un contorno occhi che ha il costo di una rata del mutuo.

Questa premessa è necessaria per capire con quale disagio tutti quelli presenti nel locale iniziano a guardare nervosamente l’orologio quando alle undici meno un quarto il concerto non sembra iniziare, qualcuno fa un timido tentativo di alzarsi in piedi ma la sciatica lo richiama all’ordine e poi, all’improvviso, c’è lui. Giovanni Lindo Ferretti sale sul palco accompagnato dai fidi Luca ed Ezio e il tempo si ferma per lasciar parlare quest’uomo sceso dai monti.

La prima canzone è tratta dall’album “Saga. Il Canto dei Canti ed è un brano che mi aiuta ad ambientarmi con questo live che sembra quasi privato, un passatempo tra pochi amici che vogliono ricordare un tempo che non c’è più. Come capirò in seguito, questa formazione a tre riesce a dare al concerto la direzione che vuole, ora intima, ora scanzonata.
Seguono le tracce classiche dei vecchi album dei CCCP, alcune rivisitate, come nel caso di “Amandoti”, alcune più fedeli alla versione originale come “Oh! Battagliero” e “Curami”. Balliamo felici come se avessimo di nuovo diciassette anni e il cantante emiliano è il nostro pifferaio.

A questa ondata di canzoni disimpegnate senza esserlo, si aggiungono quelle più mature del periodo CSI e il carisma di Giovanni Lindo Ferretti arriva dirompente come un lampo che squarcia l’aria calda di una notte d’estate. Mentre la sua voce recita: “S’alzano i roghi al cielo, s’alzano i roghi in cupe vampe”, il pubblico è ipnotizzato dalla sua capacità di strapparti dal tepore della tua quiete e lasciarti a tremare “come creatura“. L’orrore della guerra è palpabile più di tutte le immagini veicolate dai media ogni giorno. Una cosa la voglio dire su quest’uomo, sa raccontare.
Il brivido continua quando attacca “Del mondo” e sento il mento tremare quando arriva al pezzo “povertà magnanima, mala ventura, concedi compassione ai figli tuoi”, ogni parola è come sabbia bagnata che mi trattiene e mi fa sprofondare.

La serata continua così, tra momenti più leggeri e parentesi intense, tutto sottolineato dal cambio veloce di strumenti dei musicisti, che sono due ma fanno per venti. A concludere questo live ci pensa “Spara Jurij”, tirata come la ricordavamo e con la stessa frenesia la balliamo. E all’improvviso come è arrivato, Giovanni Lindo saluta e se ne va.

Voto al concerto: otto. Ringrazio mia sorella per avermi convinto a rivedere quest’uomo, che, da solo, ha l’energia di una centrale nucleare. Qualsiasi siano le polemiche legate alle sue scelte negli anni, è innegabile il suo carisma. Lui sale sul palco come se fosse capitato lì per caso, canta con le mani in tasca dondolandosi sul posto, ha alle spalle sessant’anni di storie da raccontare e lo fa con una naturalezza che non vuole conferme né chiede consensi. Ci fa sorridere quando ammette che lui, ogni volta che scende dai monti, si chiede perché lo ha fatto e che avrebbe bisogno di un mediatore culturale per rapportarsi con il resto del mondo. Sembra sincero e, cosa ancora più importante, in pace con se stesso. E probabilmente in pace con i suoi demoni.

Il riassunto di questa serata è nelle parole di una donna che chiede a un amico: “Ma sul serio hai pogato?”.
Ciao Lindo, noi ex giovani ti salutiamo.

 

Lifestyle

Il museo vuoto

Quando una bionda lascia che parte dell’anima le venga rosicchiata da un topo di biblioteca, il risultato è una come me. Un po’ Sheldon un po’ Penny, un po’ Paris Hilton un po’ Neil deGrasse Tyson, uno dei piaceri che ho cercato di mantenere nel tempo sono i musei.
All’inizio erano le gite con la scuola, occasione più sociale che culturale. Il giorno della gita non potevi essere interrogato, era l’apice della trasgressione e mamma ti dava i soldi “perché magari vuoi comprare un souvenir”. Che di solito era un panino da McDonald, ma questa è un’altra storia.
Tutte quelle visite, però, devono aver fatto breccia nella cortina ossigenata dei miei capelli, seminando una certa attrazione reciproca tra me e l’arte. Attrazione basata più sull’aspetto fisico che intellettuale.
Io con il mio gusto un po’ rozzo e una sindrome di Stendhal da discount, lei con i suoi modi austeri e a volte un po’ distanti.
Qui entra in gioco l’argomento principale di questo articolo: l'”empty museum” e come mi ci sono ritrovata dentro.

CENNI STORICI

Facciamo un po’ di chiarezza. L'”empty museum”, letteralmente museo vuoto, è un movimento nato da un tale Dave Krugman nel 2013. Dave è un ragazzetto con cui ho avuto il piacere di passare
una settimana in Salento la scorsa estate. Ce l’avete presente quegli hipster riservati che camminano ciondolando con la barba e camicie improbabili? Ecco. Lui è stato il primo a proporre una visita al Metropolitan Museum di New York dopo l’orario di chiusura, invitando alcuni Instagramers. La formula piacque talmente tanto, che venne poi ripetuta a Londra e da lì divenne una consuetudine all’interno di Instagram.
In pratica cosa succede quando si viene invitati a un empty museum. Alcuni Instagramers vengono chiamati per scattare foto e far conoscere all’esterno una realtà già conosciuta come quella museale, ma rendendola in una prospettiva unica. Questo evento, infatti, presenta dei risvolti enormi: il primo tra tutti è l’esclusività. Passeggiare indisturbati per un museo pressoché deserto è emozionante. Le opere vengono vissute in maniera più profonda, non disturbati dal vociare della folla. Questo permette, altresì, di sviluppare maggiore creatività rispetto al modo di scattare. Non c’è fretta nella visita e il silenzio contribuisce alla creazione. Un altro vantaggio, poi, è la promozione della struttura. Là dove, da sempre, il museo è vissuto come un luogo sacro che raramente si concede ai comuni mortali, la formula “empty” permette di avvicinare due realtà apparentemente così distanti. Da un lato il museo si rende più accessibile a tutti, dall’altra il pubblico si sente maggiormente invogliato alla visita. Complici anche le nuove tecnologie e forme di comunicazione, l’arte si avvicina al popolo con una veste più amichevole. So che in molti hanno storto il naso di fronte a questa alleanza, ma d’altronde la sopravvivenza dei musei dipende anche dalla capacità di attrarre il pubblico, ricorrendo a metodi come l’utilizzo dei social e di un linguaggio più “popolare”.

URBINO – PALAZZO DUCALE

Fatto tutto questo preambolo, come già accennato all’inizio, l’attrazione tra me e l’arte ha fatto in modo che io venissi invitata a diversi eventi in ambito “empty”. Dall’Accademia Carrara di Bergamo al Castello del Valentino a Torino, cito solo alcune delle recenti manifestazioni a cui ho partecipato.
Cominciamo dal Palazzo Ducale di Urbino e relativa Galleria Nazionale.
Già la visita a Urbino vale il prezzo del biglietto. Città che si estende su un territorio collinare, vanta il suo centro storico come patrimonio dell’umanità UNESCO. Qui si respira Rinascimento a pieni polmoni e il Palazzo Ducale ne è il simbolo perfetto. Voluto nel XV secolo dal Duca di Urbino, è un edificio maestoso già dal cortile interno fatto di portici ad arco. Nelle sale interne è possibile riconoscere la magnificenza degli ambienti, con soffitti altissimi e grandi camini. Le opere ospitate sono tra le più famose, dalla Flagellazione del Cristo di Piero della Francesca alla Venere di Urbino a opera di Tiziano, motivo principale della nostra visita. Il dipinto, infatti, a distanza di quasi cinque secoli dalla committenza di Guidobaldo II della Rovere, è tornato nella sua città di origine per un breve periodo.
Se non siete stati tra i fortunati che hanno potuto vedere il quadro ospitato fino al 18 dicembre 2016, fate sempre in tempo a visitare il resto della meritevole Galleria Nazionale.
Un consiglio: se avete tempo, fermatevi a dormire all’Urbino Resort, una tenuta che ha riportato in vita le antiche case coloniche di un borgo rurale, per farne una struttura alberghiera nel rispetto dei principi territoriali.

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TERME DI DIOCLEZIANO E MOSTRA DI JEAN ARP

Appena tornata da Urbino, mi aspetta la visita alle Terme di Diocleziano, in occasione della restrospettiva su Jean Arp, maestro francese che ha avuto un ruolo di primo piano nell’ambito delle avanguardie culturali e tra i fondatori del movimento Dada.
Stavolta si gioca in casa e proprio per questo devo subito fare un’ammissione di colpa: se ero mai stata in questo posto, io non ne ho memoria. Essere nata e cresciuta in una città, causa spesso il rimandare la visita di tanti luoghi a un tempo non meglio definito. La chiesa Tal dei Tali? Mai vista, ma tanto sono di Roma, prima o poi ci andrò. E così per tanti altri posti rimasti inosservati, inascoltati.
Prendiamo le Terme di Diocleziano, il più grandioso complesso termale mai costruito nel mondo romano. Ci sarò passata davanti un miliardo di volte quando ero liceale e l’autobus passava di fronte alla struttura. La sua superficie vastissima comprendeva anche Piazza Esedra, che a molti non dirà niente, ma per me ha significato un punto di riferimento importante negli anni. Le manifestazioni quando ancora c’era un sentimento politico partivano da lì. Gli appuntamenti con gli amici venivano dati quasi sempre alla fontana, così facilmente individuabile. Eppure ho perso la possibilità di conoscere meglio la storia, rinviando quel momento a poi, tanto c’è tempo.
L’empty museum, in questo senso, ha dato nuova linfa vitale a luoghi che stavano rischiando di cadere nel dimenticatoio.
Nelle solenni sale del museo si sviluppa la mostra di Jean Arp, in un dialogo continuo tra le forme care al maestro e la classicità del luogo. Volutamente uso la parola dialogo per sottolineare come l’artista francese abbia subito negli anni la fascinazione degli studi antichi, che tornano nelle sue opere. Basta soffermarsi sulla sinuosità delle linee di molte sculture per ritrovarci un richiamo della cultura classica.
Anche questo è un aspetto importante della nuova realtà museale che vuole aprirsi ad altre forme di comunicazione e all’interazione con altri stili artistici.
Parole apparentemente in libertà per darvi un consiglio da amica bionda: niente slip bianchi al mare se non siete David Beckham e riscoprire i piccoli e grandi musei del nostro Paese. Un futuro luminoso poggia sulla conoscenza del passato.

 

MUSEI CAPITOLINI E MERCATI DI TRAIANO

Sempre all’interno della cornice romana, suggerisco una visita ai Musei Capitolini e successivamente ai Mercati di Traiano.
I primi costituiscono il complesso museale pubblico più antico del mondo, la cui fondazione viene fatta risalire al 1471. Al suo interno, tra le tante opere presenti, è da menzionare la statua equestre di Marco Aurelio in bronzo.
I Mercati di Traiano, come suggerisce il nome, era un centro “polifunzionale” composto da magazzini uffici e negozi, al servizio dell’amministrazione imperiale. Fiore all’occhiello di questa struttura è la vista su Roma che offre.
Se poi a furia di ripetere la parola mercato vi viene fame, vi consiglio di fare quattro passi verso il Rione Monti e fermarvi a mangiare da Zia Rosetta.
Io ho preso un panino con la coratella (le interiora di animali da cortile) e uno con la guancia di vitello.
Perché se è vero che l’occhio vuole la sua parte per nutrire lo spirito, lo stomaco vuole tutto il resto.

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