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Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.

 

 

Travel

London calling (e io rispondo)

Antonello Venditti cantava “che certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, io invece per fortuna solo certi, altrimenti io e l’attuale luce dei miei occhi non staremmo insieme. Se la passione delle storie precedenti non si fosse spenta come brace quando fai il barbecue e tu volevi un’altra bruschetta, non saremmo stati le nostre rispettive fette di pane ma le briciole lasciate distrattamente sulla tavola da qualcun altro. Mi sono già persa vero? Mi ero dimenticata di quanto l’amore potesse incasinarti i pensieri ancora di più, ma torno a bomba.

Gli amori che finiscono, lasciano dietro di loro varie cose ed eventuali. A me per esempio rimasero due biglietti per i quarant’anni di carriera dei Cure, che comprai a dicembre 2017 fiduciosa che a luglio 2018 la coppia sarebbe ancora esistita. Per quei biglietti litigai anche con mia sorella, la vera fan del gruppo inglese tra le due, ma si sa che bisogna sbattere violentemente contro le cose per comprenderle appieno.

Il destino, poi, fa giri ancora più misteriosi degli amori di Venditti per riportare un certo equilibrio nella forza. Quei biglietti della discordia erano all’improvviso diventati il simbolo di una fratellanza ritrovata. Non solo, ma il concerto sarebbe stato a Londra, quindi io e mia sorella avremmo avuto la nostra “luna di miele”.

GIORNO UNO – Partiamo con il trolley più leggero mai visto in mano a due ragazze. Decidiamo di lasciare a casa shampoo e balsamo perché saremmo state ospiti di un’amica. Addirittura ci portiamo dietro un unico paio di scarpe!

Arriviamo in un’inaspettatamente caldissima e assolata Londra. Sapete quel grigio con cui tutti identificano la città? In quattro giorni io ho visto solo azzurro.

Dall’aeroporto di Stansted, prendiamo un treno che attraversa la campagna inglese prima di entrare nella metropoli ed è tutto un tripudio di casette con i mattoncini e papere negli stagni. In attesa di incontrarci con la nostra amica, facciamo un giro all’interno della stazione di Liverpool Street dove mangiamo un boccone in una delle tante catene di cibo da asporto. Dopodiché ci dirigiamo ad Hackney, una zona periferica recentemente riqualificata, dove molti artisti hanno scelto di vivere eleggendola a nuovo centro culturale. La prima cosa a cui penso camminando tra le vie è “Toh guarda, Privet Drive”, uno dei posti  citati in Harry Potter. Se siete fan della saga più famosa degli ultimi vent’anni, qui troverete pane per i vostri denti.

La seconda cosa a cui penso è quanto basti poco per sapere di essere in un’altra città ma soprattutto in un’altra cultura: guardare sistematicamente dalla parte sbagliata prima di attraversare. I cortili di fronte alle case. Le porte colorate. Le finestre a bovindo. I piccoli negozi che convivono accanto ai colossi. I profumi di terre diverse che si mischiano nell’aria. Londra mantiene il fascino multietnico che ricordavo dai miei viaggi di adolescente.

La casa in cui veniamo ospitate è così tipica che potrei rimanere a fotografare ogni angolo per una giornata intera. Ha le finestre enormi senza serrande che affacciano su una strada alberata, la moquette ovunque che ti obbliga a togliere le scarpe e il bagno senza bidet. Abbiamo però solo il tempo di lasciare le valigie e darci una rinfrescata, ché siamo di nuovo in strada, direzione Camden Town.

Camden è esattamente come la ricordavo. Ci sono ancora i negozi di cianfrusaglie, i punk, i rocker, i tossici seduti per terra, odore di cibo ovunque e tanta, tanta gente. Ci fermiamo a prendere una birra lungo il canale, al The Ice Wharf, bevendo sotto gli alberi e guardando il sole spegnersi sull’acqua. Finita la birra mangiamo del buon sushi (sebbene non troppo vario) al Sushi Salsa e finiamo la serata sul rooftop di uno spazio di coworking a ballare sulla musica anni ’80-’90.

GIORNO DUE – La data intorno alla quale ruota tutto il nostro viaggio è finalmente arrivata. Ci concediamo una colazione rinforzata al The Mokapot House che ci aiuti ad affrontare il concerto, scegliendo tra i cibi più freschi a disposizione. Uova, salsicce e fagioli. E anche se per le successive due ore ci siamo pentite amaramente, con il senno di poi si è rivelata una scelta vincente.

Il perchè è presto spiegato: la line up del festival era talmente ricca di nomi (oltre ai Cure, per citarne solo alcuni, gli Slowdive e gli Interpol), che non c’era tempo da perdere tempo in file mangerecce, quindi sante quelle salsicce che ci hanno sostenuto per otto ore di concerto.

Siete mai stati a un festival? Di queste proporzioni neanche io. Quindi ecco le cose che vanno tenute presenti quando si affronta questo tipo di esibizione a luglio.

  • Farà caldo, tanto caldo. Vi troverete a sperare che la pioggerella londinese vi venga a fare visita, ma il tempo anche ha lo humor inglese. Quindi portatevi la crema solare perché ne avrete bisogno. Bevete molto anche se è inutile aggiungere “e non uscite nelle ore più calde” perché il concerto inizia alle due e mezza del pomeriggio in un Hyde Park privo di vegetazione. Fate scorta di elastici.
  • Avete presente tutte quelle fashion blogger che hanno nel loro armadio una sezione apposita “outfit che sembrano presi ai charity shop ma valgono più di un vostro rene”? Se avete quel tipo di abbigliamento vuol dire che potete bruciarlo subito dopo e comprarne uno nuovo di zecca, altrimenti vestitevi con cose a cui non tenete particolarmente. Perché ci sarà la terra, la gente vi verserà i suoi drink addosso mentre vi passa davanti e qualcuno vomiterà durante la giornata. Lavate con acqua benedetta una volta tornati a casa.
  • Non schifatevi di niente

Detto ciò, il festival si è rivelato una delle esperienze più belle che abbia fatto in trenta…ahem anni di vita. Ineccepibile dal punto di vista organizzativo e intenso da quello emotivo. Stare lì con mia sorella, vederla cantare le canzoni con la stessa energia di quando aveva appena dieci anni, fermarci a prendere il fish’n’chips sulla via del ritorno. Ecco, tutto questo ha un prezzo, visto quanto è cara Londra, ma è un costo che sosterrei anche nelle prossime vite per vederla sorridere così. Anche se ho dovuto farmi spezzare il cuore per capirlo.

GIORNO TRE – Essere ospiti di una persona che vive nella città che stai visitando, ha i suoi risvolti positivi. Puoi fare la vita che fa lei, evitando di cadere nelle solite trappole da turisti. Perciò, dopo un lento risveglio, decidiamo di uscire per comprare l’occorrente per preparare la colazione a casa. Il problema è che a Londra anche il più piccolo degli alimentari ha cose straordinarie e mai viste, quindi finiamo per comprare più del dovuto. E a proposito di più del dovuto, pensare di venire in questa città senza acquistare nulla, è come dirsi che dopo Natale tutti a dieta. Finita la pantagruelica colazione, torniamo a Camden Town per cercare alcune cose da riportare a casa, con l’idea di proseguire non ricordo neanche dove. Epic fail.

Il mercato al coperto è così pieno di artisti e artigiani che vendono le cose più disparate da impedirci qualsiasi altra azione che non sia comprare. Al grido di “Oddio ma hai visto questo?”, passiamo quasi tutta la giornata a riempirci gli occhi e a farci svuotare il portafogli da articoli irrinunciabili. Per esempio una camicia con tanti Bart Simpson disegnati che non ho ancora idea quando né se metterò, ma che non potevo lasciare sul banco. Distrutte da quella sessione compulsiva di shopping e ancora stremate dal concerto del giorno precedente, abbandoniamo ogni velleità di visitare qualcosa e ci rifugiamo in un ristorante turco, il Tad. Nonostante l’abbondante colazione, troviamo lo spazio per ordinare l’agnello e altre specialità speziate che ci danno il colpo di grazia. Infatti torniamo a casa per un sonnellino cercando di renderci di nuovo umane. Una volta tornate presentabili, concludiamo la serata al Venerdì, un locale italiano con i tavoli fuori e un’atmosfera così piacevole da farci indugiare per un bicchiere in più di vino bianco ghiacciato.

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GIORNO QUATTRO – È il giorno della partenza. Abbiamo fatto entrare a calci i nuovi acquisti nella valigia e ci apprestiamo ad andare in aeroporto. C’è però ancora il tempo di vedere qualcosa. La prima tappa è allo Sky Garden, un giardino pensile ospitato all’ultimo piano di un grattacielo, da cui si può godere di una vista panoramica di Londra dall’alto. Il posto è suggestivo, ampie vetrate che si affacciano sulla città e all’interno una vegetazione rigogliosa che fa immediatamente Jurassic Park. L’entrata è gratuita ma la visita va prenotata online e i controlli all’ingresso sono sufficientemente severi. Una volta saliti in cima, è così tanta la bellezza che sarete ripagati di qualsiasi cosa. Subito dopo facciamo una passeggiata lungo il Tamigi fino quasi ad arrivare sotto il Tower Bridge, per poi farci tentare da Oxford Street. Premesso che a Londra spenderesti tutti i tuoi soldi solo per tutte le marche di shampoo esistenti, Oxford Street è la Mecca dello shopping. Entriamo da Primark pensando di starci al massimo mezz’ora e ne usciamo giusto in tempo per non perdere l’aereo.

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Il viaggio finisce con un trolley ai limiti della legalità, uno dei concerti più emozionanti della mia vita, una mini vacanza con la mia ritrovata sorella e un kg in più. Ho imparato che a Londra guidano come matti ma considerano le strisce pedonali sacre, che stare al piano superiore di un double-decker bus ti toglie dieci anni di vita e che puoi vestire davvero come vuoi senza essere giudicato. Mi sono ricordata di quanto è bello avere una sorella che avrei scelto anche come amica, anche quando i nostri caratteri vanno in conflitto.  Che gli amori possono finire per lasciare spazio a un sentimento più rigoglioso. Che si può pagare con la carta anche solo un caffè.

Ciao Londra, ci vediamo tra qualche stipendio.