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New Orleans. O di quando andai a caccia di vampiri

Ogni giorno mi arriva una newsletter a cui sono iscritta, alcuni giorni più di una, e ogni volta mi riprometto di leggerle tutte e fare tesoro di quello che persone più competenti di me possono insegnarmi. Lo faccio? Raramente. Le tengo lì in attesa che arrivi un tempo in cui avrò voglia/modo di leggerle. Mi è capitato però tra le mani un articolo di Medium dal titolo “To unlock your full potential, you need to write every day”. No, non l’ho finito, l’ho messo nella lista delle cose che leggerò quando sarò una ricca filantropa; mi ha fatto però riflettere su quello che una docente ripeteva durante il master e cioè che la scrittura è un’arte che va praticata. 

Come la dieta, che mi impegno ogni giorno seguire e poi sto perennemente sopra di 3/4 kg. Il mio primo romanzo lo intitolerò “Io e me tre kg in sovrappeso”. E se tanto mi dà tanto, con la costanza che mi contraddistingue quando si tratta delle mie passioni, sarà un romanzo postumo.

A venti giorni di distanza dalla partenza per gli Stati Uniti, ho ritenuto che sia arrivato il momento di scrivere del precedente viaggio in America, avvenuto esattamente a novembre 2018. Sprezzante di ogni logica di blogging/marketing/feeling, ho pensato “se non ora quando?”, sapendo che quel “ora” potrebbe estendersi in un tempo indefinito tra oggi domenica 6 ottobre e only god knows quando.

A tutto questo aggiungiamo un livello di difficoltà superiore, dato dai ricordi che potrebbero non essere precisi come un anno fa. D’altronde sono una donna di pancia. In tutti i sensi.

ANTEFATTO – L’idea di un viaggio in America nasce quando io e il Dottore ci stavamo appena frequentando. Lui mi raccontava delle sue passioni da nerdacchione e io, già perdutamente innamorata di questo ragazzone di cui capisco quello che dice la metà delle volte, pensavo che se le cose tra di noi avessero funzionato, lo avrei portato a New York a conoscere la mia migliore amica e in Louisiana a una conferenza per programmatori.

A volte la vita sa essere buona e giusta; otto mesi dopo eravamo su un aereo diretti verso la prima destinazione del nostro viaggio.

GIORNO UNO – Atterriamo all’aeroporto di New Orleans di sera tardi, quindi impossibile farsi un’idea di cosa c’è intorno, di come sembra apparire la città al nostro arrivo. Quello che non mi aspetto è l’umidità soffocante in questo novembre già iniziato. Scendiamo dall’aereo come Totò e Peppino in quel di Milano, ma il clima è invece da Miami Vice.

L’unica cosa che riusciamo a fare in questo giorno che sta ormai finendo (mica come l’estate che qui sembra ancora andare alla grande), è raggiungere lo Chateau LeMoyne, il nostro albergo per il nostro periodo creolo. 

GIORNO DUE – Siccome nei giorni a seguire il Dottore avrebbe assistito alla conferenza, approfittiamo del suo giorno libero per scoprire New Orleans.

Nel mio immaginario alimentato da romanzi e film sui vampiri, la città era una meta ambita da tempo; mi aspettavo cocchi guidati da oscuri figuri e nebbia densa come cotone. Cosa che in effetti poi ho trovato, ma New Orleans si è rivelata molto di più.

Il nostro albergo si trova nel Quartiere Francese, in quello che tradizionalmente viene considerato il cuore pulsante della città, ma anche il più turistico per certi versi.

Quello che mi colpisce di nuovo dell’America è come tutto sembri così familiare, come ogni angolo riapra qualcosa nella memoria, qualcosa di letto o di visto, come se questi posti fossero anche parte della mia storia. E in parte lo sono, non per niente la mia tesi di laurea fu proprio sugli Stati Uniti. 

Ma non divaghiamo. Il Quartiere Francese è già brulicante di vita, suona qualche gruppo jazz più per attirare i turisti che per reale spirito del blues, i furgoni scaricano la merce destinata ai ristoranti e i negozi iniziano a tirare su le saracinesche. A proposito, qui i negozi aprono tardi perché la vita notturna di New Orleans è impegnativa e no, non suonano ovunque a tutte le ore. La musica qui è una cosa seria, ma anche il turismo lo è e troverete che la paccottiglia viaggia di pari passo con i prodotti più autentici.

Decidiamo di inaugurare la mattina con una visita al Café Beignet, scelto dopo controlli incrociati su qualsiasi sito di cibo trovato nei mesi precedenti alla partenza. Il locale è un piccolo e confortevole buco che compensa con una lussureggiante vegetazione nella parte esterna. Ci sono i tavolini in ferro battuto, il pavimento maiolicato e il profumo di sciroppo d’acero e zucchero. Ordiniamo una colazione salata per lui e una dolce per me, per concludere poi con i tipici beignet, frittelle lievitate cosparse di zucchero a velo.

Dopo questa colazione dei campioni decidiamo di dirigerci al Lafayette Cemetery No.1 nel Gardens District. Tanto il Quartiere Francese è caratterizzato da edifici bassi con le porte colorate e le grondaie lavorate, quanto la zona verso il cimitero è costellata di bellissime ville in stile liberty nei colori pastello, ancora agghindate per Halloween. La fortuna ha voluto che come periodo di visita abbiamo scelto quello poco dopo il 31 ottobre, quindi abbiamo trovato la città ancora addobbata di zucche, ragnatele e pezzi di corpo penzolanti dai balconi.

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Di solito, quando vedo una casa che mi piace, immagino come sarebbe vivere lì, mettere le zucche sulle scale fuori dal portone, organizzare un barbecue nel mio enorme e curato giardino, sedermi nel patio con mio marito a bere una birra mentre Charlie, il nostro labrador, sonnecchia ai nostri piedi. Poi mi sveglio tutta sudata e mi ricordo che l’unica cosa che abbiamo a casa è un peluche a forma di sushi. Però ci stiamo lavorando.

Ancora prima di partire, mi ero informata sulle “DIECI COSE ASSOLUTAMENTE DA VEDERE SE NO SETTE ANNI DI GUAI” a New Orleans e ho letto opinioni controverse sui cimiteri, che pure sono una parte fondamentale della città. La conclusione che ne ho tratto è che informarsi prima sulle cose da fare non è mai male, ma poi il resto lasciatelo al vostro gusto, a quello che vi piace veramente.

A me piace tutto ciò che è un po’ macabro e spettrale, da ragazzina ero andata in fissa che un vampiro dovesse fare di me la sua sposa, uno dei miei Batman preferiti di sempre è quello di Tim Burton, quindi ho trovato la visita al cimitero interessante e con la giusta atmosfera. Le tombe abbandonate che riportano date lontane nel tempo, l’erba che cresce incolta nel marmo spaccato, il cielo plumbeo e gli alberi che allungano sulle lapidi le fronde pesanti. Intorno le ville confettose di Edward mani di forbice.

Quindi se vi piace il genere decadente, la visita in uno dei tanti cimiteri di New Orleans merita. E chissà che non vi troviate a incontrare Nicholas Cage che preventivamente si è fatto costruire una tomba qui perché il suo desiderio è essere seppellito in questa città.

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Il pomeriggio lo dedichiamo a un’altra delle attrazioni principali: il bayou. Nome cajun per le Westlands, è una zona del Mississipi fatta di paludi, canali e foreste dove poter ammirare gli alligatori e altri animali fantastici. Lungo la strada che ci porta al nostro tour, i segni lasciati dall’uragano Katrina sono ancora visibili nelle case abbandonate. Allontanandosi dal centro della città, si ha una maggiore impressione da America del sud, di banjo suonati sotto tetti di lamiera e gamberi d’acqua dolce tirati su con reti rimediate.

Siamo tutti molto eccitati da questa visita ai “gators” come li chiamano affettuosamente qui; io e il Dottore vestiti da Mr. Crocodile Dundee e un gruppo di arzille vecchie americane pronte ad affrontare la palude in infradito.

Il nostro capitano si presenta come un gioviale giovane uomo che ci intrattiene fino al momento clou: l’incontro con gli alligatori. Questi rettili silenziosi circondano la nostra imbarcazione con una velocità inaspettata e una calma preoccupante, per poi esibirsi nello show di questo tour, il nutrimento. Il capitano allunga un bastone con attaccato quello che sembra essere un marshmallow e ci invita a non sporgerci per non diventare a nostra volta dei marshmallow. Un alligatore esce fluido dall’acqua e con uno schioccare di fauci trascina giù la preda morbidona sott’acqua.

All’improvviso l’apocalisse: il cielo diventa nero in fretta e gocce come pugni iniziano a cadere sulla nostra barca, i fulmini illuminano la palude intorno e i tuoni sono così vicini che si possono quasi toccare.

Ora, io ho il terrore dei temporali. Non di essere presa da un fulmine e di finire croccante su qualche strada, ma una paura irrazionale che mi ha portato anche in terapia. Immaginate di vedere concretizzarsi davanti ai vostri occhi l’incubo peggiore, Freddie Kruger riflesso allo specchio, un coccodrillo su per il tubo di scarico, un brufolo il giorno dell’appuntamento con Ryan Gosling.

Mentre la nostra imbarcazione inizia a riempirsi di acqua e le vecchie lanciano gridolini quasi di piacere per questo avventuroso contrattempo, io mi nascondo tra le braccia del Dottore e intono una litania così lunga e ricca di bestemmie che sono stata scomunicata da circa 175 religioni diverse. Alla fine il nostro capitano mostra pietà e ci riporta a riva, dove io mi metto a correre verso il centro visitatori buttando giù qualsiasi ostacolo umano e non lungo il mio tragitto.

Rimaniamo in questa catapecchia di legno, fradici dalla testa ai piedi e confortati solo dal caffè bollente e da una guida che per farci dimenticare di aver visto la morte in faccia, ci ha permesso di toccare un baby alligatore. Nonostante questo momento da National Geographic, continuo a non sentirmi tranquilla, soprattutto quando un inserviente di sei metri per sei, all’ennesimo tuono, ridendo scuote la testa e dice: “Welcome to Louisiana, baby!”.

Tornati in albergo la sera tardi, io mi rifiuto di uscire ancora una volta lamentando uno stress post traumatico che intenerisce il Dottore e lo obbliga a ordinare la cena in camera.

A proposito, in America la mancia si lascia quasi sempre e obbligatoriamente. Ma se volete risparmiare ogni tanto, magari dopo una lunga giornata di camminata, ordinare da mangiare dai vari Uber Eats è un’idea valida.

GIORNO TRE – Questo è il giorno di mostrarmi per la donnina matura e indipendente che sono diventata negli anni: oggi vado in giro da sola. Lascio il mio piccolo programmatore sul luogo della conferenza e me ne vado un po’ a zonzo fino all’ora di pranzo. Raggiungo il Mississipi e gironzolo per i negozi lì nei dintorni, per poi ricongiungermi al Dottore per pranzo. Scegliamo, su consiglio di un’amica, un locale piccolo e affollato dove fanno i po’boy, il Killer Poboys. Dicesi po’boy un panino riempito di ostriche, gamberi d’acqua dolce o altri ingredienti e varie salse. La leggenda vuole che il termine nasca dall’espressione poor boy, per indicare gli sfortunati lavoratori di una compagnia di trasporti quando vennero licenziati, a cui venivano offerti gratis questi panini per sfamarsi. Noi, nel rispetto delle tradizioni locali, ne ordiniamo due a testa e vi assicuro che il terzo è stato evitato solo perché Alessio doveva rientrare alla conferenza.

Una volta salutati, io ho continuato a girovagare per il Quartiere Francese curiosando tra i negozi di antiquariato, quelli turistici e fotografando le case. Apro la solita parentesi, stavolta graffa per movimentare il nostro rapporto, per dire che a New Orleans si gira tranquillamente da soli, basta rimanere nei luoghi più centrali e affollati e non si hanno problemi. La serata si conclude prima bevendo quelle settordici birre con i compagni di corso del Dottore, chiacchierando amabilmente nell’unica lingua universalmente riconosciuta: l’alcol. Poi siamo finiti a mangiare al Desire Oyster Bar, un locale a metà tra un diner e un ristorante da vecchia Europa, dove mangiamo quello che di più tipico New Orleans ha da offrire, dal jambalaya al coccodrillo fritto. Una menzione particolare alle ostriche, che qui servono letteralmente in tutte le salse e a prezzi contenuti.

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GIORNO 4 – Altro giorno, altra corsa da sola impazzando per le strade di New Orleans. Stavolta tocca a Frenchmen Street, un’altra delle zone in cui si svolge la vita notturna di NOLA, fatta di case basse dai colori sgargianti e graffiti sui muri, per poi raggiungere Canal Street e i suoi grattacieli da grande metropoli. Questo duplice aspetto della città mi ha conquistato: da una parte l’aria decadente e spettrale della New Orleans della cultura creola e dei riti voodoo, degli edifici bassi e dei musicisti, dall’altra il carattere metropolitano fatto di strade ampie ed edifici imponenti.

Mi ricongiungo alla mia metà per l’ora dell’aperitivo e decidiamo di finire questa prima parte del viaggio con un mint julep, un cocktail originario degli Stati del Sud a base di menta e whiskey.

CONCLUSIONI – New Orleans è una città che merita una visita, anche se per stessa ammissione di chi ci abita, ha venduto la sua anima al diavolo del turismo e soprattutto zone come Bourbon Street sono caotiche e piene di cianfrusaglie a buon mercato per attirare la clientela. Resta il fatto che offre la possibilità di vedere una parte di America diversa da quella, per esempio, di New York. Qui la cultura degli schiavi si è fusa con quella dei padroni, dando vita a un mix di leggende e tradizioni di cui vale la pena far parte anche solo da turista. Quello che so è che ci sono cose che non ho potuto vedere e che mi fanno dire “io qui ci voglio tornare”.

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Lifestyle

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.