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Andare a fondo delle cose. Una guida superficiale

L'oceano dalla prospettiva di chi è dentro l'acqua

Una volta un amico mi disse: “tu non riesci ad andare a fondo delle cose, rimani in superficie”, stavamo parlando della mia tesi di laurea e lui se ne uscì con quella frase.

Da qualche parte, nei meandri della mia mente, quelle parole devono essersi annidiate e generato tanti piccoli xenomorfi di scarsa autostima. Ciò si traduce in una me bloccata costantemente in un limbo, altro che zona di sicurezza, per me nessuna zona è sicura, neanche la mia testa.

Una galleria di memorabilia a tema film di fantascienza. In primo piano una creatura aliena
Ank Kumar, CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, via Wikimedia Commons

Short version per chi non crede nelle dimensioni

Si parla del mio senso di inadeguatezza verso qualsiasi cosa, tranne il cibo e l’alcol. A mangiare e bere non mi ferma nessuno. E di Francesco Costa come nuova divinità, ma io sono atea.


Non si gioca con la scrittura

Ogni volta che penso di scrivere, queste sono le scuse che trovo e che mi impediscono di continuare:

  1. Non sono mica Steinbeck che la gente sta aspettando i miei testi;
  2. Non ho la più pallida idea di cosa significhino la metà delle voci su WordPress, il mio blog non è ottimizzato, dissinnescato, calibrato, pesato. Peggio mi sento! Non è accessibile e quindi sto sicuramente facendo un torto a qualcuno;
  3. Quello che scrivo, lo hanno già sviscerato ottantasette persone prima di me e meglio. Ma poi non vado a fondo delle cose, di che stiamo parlando?
  4. Non sostengo le aspettative, figuriamoci le critiche. Non ho abbastanza soldi per chiedere alla mia terapeuta di venire a vivere con me.

Questo ragionamento lo applico, con le dovute varianti, a qualsiasi aspetto della mia vita, soprattutto se si tratta di hobby. Anzi in quel caso divento ancora più immobile perché sento di non essere giustificata se dovessi fallire.

Il ragionamento è: non mi pagano per farlo, quindi posso evitare di farlo.

Instagram una volta era tutta campagna

Faccio un altro esempio, Instagram. Inizio a usare questo social nel 2013 per trovare un diversivo alla mia relazione di allora.

Questo avrebbe dovuto dirmi qualcosa sullo stato di salute di quella storia, ma l’informazione ci ha messo cinque anni per arrivare dal cuore al cervello. Detto ciò, ho cominciato a usarlo in maniera personale, raccontando aneddoti scemi e fatti miei. Ho conosciuto tanti posti, fatto cose, visto gente, ho tirato su un certo seguito ed è stata la mia isola felice per un sacco di anni.

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via Giphy

La sindrome dell’imbucata

Ma ecco la parte “terapia di gruppo”. A un certo punto sono stata notata da alcune persone e quelle persone devono aver pensato a loro volta che io fossi una persona valida sotto qualche aspetto.

All’inizio ero così lusingata dal fatto che personaggi di un certo ambiente mi seguissero, che con gratitudine ho iniziato ad allargare la mia cerchia a tutti loro.

Poi è arrivata l’ansia da prestazione, all’improvviso ero circondata da gente fichissima, gente nel digitale da 72 anni, attiva e operativa nelle situazioni più disparate, dal femminismo alle escursioni, dal menu settimanale agli abiti del festival del cinema di Venezia.

Ogni giorno una firma da apporre, una lotta da abbracciare, una causa per cui indignarsi, nuove divinità a cui rivolgersi.

Succede che qualcosa si rompe. Io che soffro da che ho memoria della sindrome della superficiale, di quella che deve dimostrare di meritare un invito alla festa del momento, mi sono rotta. Di testa, di entusiasmo, di energia, di scatole e ho fatto un passo indietro.

Pupazzo Lego in pezzi
Photo by Jackson Simmer on Unsplash

La divisa del liceo, vent’anni dopo

La mia terapeuta ultimamente mi ha detto di lasciare uno spiraglio aperto al mondo, credo che cominci a temere che diventi come Unabomber, con la mia casetta in qualche bosco di Rieti a progettare un attentato contro questa società che non mi ha capita.

La verità è che a me le persone piacciono, non tutte ma abbastanza, più che altro soffro la possibilità di non essere alla loro altezza.

Tempo fa ripensavo agli anni del liceo, quando frequentavo un classico molto rinomato di Roma.

Era un liceo pubblico, ma avevamo una nostra divisa, come è normale a quella età. Dr. Martens per la frangia più grunge, Clark per quella morettiana. Magliette comprate al mercato dell’usato e Barbour verde. No bomber no Fred Perry no Naj Oleari. Quella era roba da pariolini (persone della Roma bene, di una certa borghesia e orientamento politico) o fasci.

È successo che a quasi 41 anni mi sono sentita sopraffatta da una serie di meccanismi che mi riportano a un’inadeguatezza adolescenziale e la cosa più responsabile nei miei confronti che possa fare, è lavorarci su.

Memento mori: anche Francesco Costa fa la cacca

La domanda ora sorge spontanea: e al popolo di Milazzo?
Riprendo il filo da quello spiraglio che mi è stato detto di tenere aperto, pensando questo tentativo di scrittura come il mio modo di fare terapia offline e online. Ci sono tante persone che stimo che trovano la propria voce nel giornalismo attento di Francesco Costa o nelle riflessioni di cuore di Tlon, in una genitorialità sostenibile o in un’alimentazione rispettosa.

Io ringrazio per tutte queste voci che mi fanno conoscere una parte di mondo, solo che non è la mia e non è tutto il mondo, io a quarantuno anni non so che lavoro voglio fare da grande, figuriamoci se ho queste solide certezze come le Dr. Martens ai piedi della mia giovinezza.

Quando nel novembre 2019 mi sono licenziata dal “posto fisso”, mesi prima che si parlasse di generazione Yolo e l’umanità trovasse un’etichetta perché quello che non ha un’etichetta è ignoto e potenzialmente spaventoso, molte persone parlavano di me come una coraggiosa. Altre come di una privilegiata, ma di questo ne parleremo un’altra volta.

Io mi sono licenziata perché non mi sentivo più rappresentata. Quindi, caro Francesco Costa, tu sarai anche una persona eccezionale e un professionista di grande rilievo e io continuerò a leggerti (tanto ogni giorno, su Instagram, c’è qualcuno che ti condivide), ma io ora ho bisogno di altro.

Ho bisogno soprattutto degli incerti, dei pavidi, degli apolidi, delle vaschette di gelato dove invece ci sono i peperoni surgelati, dei vestiti senza etichetta che non sai se lavare a mano, con il prelavaggio, senza ammorbidente, coi fiori di Bach.

Mi riprendo il diritto di dire che una persona mi ha stufato anche se indossa le Dr. Martens come me, di averne abbastanza di chi ironizza sempre su tutto e di chi invece rende tutto epico, pure quando fa la spesa.

Mi riprendo il diritto di condividere o meno quello che mi va, se mi va, quando mi va senza paura di essere la bionda sciroccata che parla solo di argomenti frivoli.
Anche di essere quella lì e tutte le mie altre personalità.

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via Giphy

Ora che lo ho scritto mi sento meglio?

Beh non ho scrollato passivamente i social e non ho mangiato un pacco di patatine, buttalo via.

Si sentirà meglio qualcuno? Avrò aiutato il mondo a essere un posto migliore? Cambierò idea fra cinque minuti e mi chiuderò al bagno pensando che a 41 anni sono una fallita che non ha combinato nulla di memorabile nella vita? Lo scoprirò tra cinque minuti.

Piccola postilla pubblicità

No, non è proprio pubblicità, ma mi piaceva l’allitterazione. In questa mia fase di “rivendicazione della diversità pure se ci litigo”, condivido i nomi di due persone di cui apprezzo i contenuti che producono.

Una è Eleonora Sacco di Pain de Route, un progetto attraverso il quale fa conoscere meglio i popoli dell’Est. Con lei ho seguito un tour virtuale in Georgia, che mi ha talmente convinto da prenotarne uno dal vivo alla scoperta dei luoghi russi a Roma. Mi piace Eleonora perché mostra qualcosa di veramente diverso e perché si limita al suo campo. Dove “limitarsi” non è sinonimo di disinteresse verso il resto del mondo, ma è segno di cura e rispetto.

La seconda persona è Matteo Bordone, il cui podcast mi è stato fatto scoprire da una mia carissima amica. Non so assolutamente nulla di lui e avrei continuato a ignorarlo se non mi fosse stato indicato. È nel mucchio selvaggio dei podcast di Il Post e tratta argomenti vari con quella punta di cinismo e sorriso beffardo che non fa mai male. E ha una bella sigla.

Concludo con le parole di una sua puntata su Alessandro Barbero: questo non fa di lui un nemico del popolo e non fa di lui soprattutto un cattivo. Dietro a questa idea c’è una forma mentale di contrapposizione frontale e di schieramento continuo che ci ha abituato a prendere le persone che stimiamo e metterle nella scatola dei buoni, che è poi la scatola dei santi, perché accanto c’è una scatola nera dei cattivi e poi la scatola dei dannati.

Fino al 15 ottobre lo potete ascoltare gratis, poi diventa un contenuto (giustamente) a pagamento.