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New Orleans. O di quando andai a caccia di vampiri

Ogni giorno mi arriva una newsletter a cui sono iscritta, alcuni giorni più di una, e ogni volta mi riprometto di leggerle tutte e fare tesoro di quello che persone più competenti di me possono insegnarmi. Lo faccio? Raramente. Le tengo lì in attesa che arrivi un tempo in cui avrò voglia/modo di leggerle. Mi è capitato però tra le mani un articolo di Medium dal titolo “To unlock your full potential, you need to write every day”. No, non l’ho finito, l’ho messo nella lista delle cose che leggerò quando sarò una ricca filantropa; mi ha fatto però riflettere su quello che una docente ripeteva durante il master e cioè che la scrittura è un’arte che va praticata. 

Come la dieta, che mi impegno ogni giorno seguire e poi sto perennemente sopra di 3/4 kg. Il mio primo romanzo lo intitolerò “Io e me tre kg in sovrappeso”. E se tanto mi dà tanto, con la costanza che mi contraddistingue quando si tratta delle mie passioni, sarà un romanzo postumo.

A venti giorni di distanza dalla partenza per gli Stati Uniti, ho ritenuto che sia arrivato il momento di scrivere del precedente viaggio in America, avvenuto esattamente a novembre 2018. Sprezzante di ogni logica di blogging/marketing/feeling, ho pensato “se non ora quando?”, sapendo che quel “ora” potrebbe estendersi in un tempo indefinito tra oggi domenica 6 ottobre e only god knows quando.

A tutto questo aggiungiamo un livello di difficoltà superiore, dato dai ricordi che potrebbero non essere precisi come un anno fa. D’altronde sono una donna di pancia. In tutti i sensi.

ANTEFATTO – L’idea di un viaggio in America nasce quando io e il Dottore ci stavamo appena frequentando. Lui mi raccontava delle sue passioni da nerdacchione e io, già perdutamente innamorata di questo ragazzone di cui capisco quello che dice la metà delle volte, pensavo che se le cose tra di noi avessero funzionato, lo avrei portato a New York a conoscere la mia migliore amica e in Louisiana a una conferenza per programmatori.

A volte la vita sa essere buona e giusta; otto mesi dopo eravamo su un aereo diretti verso la prima destinazione del nostro viaggio.

GIORNO UNO – Atterriamo all’aeroporto di New Orleans di sera tardi, quindi impossibile farsi un’idea di cosa c’è intorno, di come sembra apparire la città al nostro arrivo. Quello che non mi aspetto è l’umidità soffocante in questo novembre già iniziato. Scendiamo dall’aereo come Totò e Peppino in quel di Milano, ma il clima è invece da Miami Vice.

L’unica cosa che riusciamo a fare in questo giorno che sta ormai finendo (mica come l’estate che qui sembra ancora andare alla grande), è raggiungere lo Chateau LeMoyne, il nostro albergo per il nostro periodo creolo. 

GIORNO DUE – Siccome nei giorni a seguire il Dottore avrebbe assistito alla conferenza, approfittiamo del suo giorno libero per scoprire New Orleans.

Nel mio immaginario alimentato da romanzi e film sui vampiri, la città era una meta ambita da tempo; mi aspettavo cocchi guidati da oscuri figuri e nebbia densa come cotone. Cosa che in effetti poi ho trovato, ma New Orleans si è rivelata molto di più.

Il nostro albergo si trova nel Quartiere Francese, in quello che tradizionalmente viene considerato il cuore pulsante della città, ma anche il più turistico per certi versi.

Quello che mi colpisce di nuovo dell’America è come tutto sembri così familiare, come ogni angolo riapra qualcosa nella memoria, qualcosa di letto o di visto, come se questi posti fossero anche parte della mia storia. E in parte lo sono, non per niente la mia tesi di laurea fu proprio sugli Stati Uniti. 

Ma non divaghiamo. Il Quartiere Francese è già brulicante di vita, suona qualche gruppo jazz più per attirare i turisti che per reale spirito del blues, i furgoni scaricano la merce destinata ai ristoranti e i negozi iniziano a tirare su le saracinesche. A proposito, qui i negozi aprono tardi perché la vita notturna di New Orleans è impegnativa e no, non suonano ovunque a tutte le ore. La musica qui è una cosa seria, ma anche il turismo lo è e troverete che la paccottiglia viaggia di pari passo con i prodotti più autentici.

Decidiamo di inaugurare la mattina con una visita al Café Beignet, scelto dopo controlli incrociati su qualsiasi sito di cibo trovato nei mesi precedenti alla partenza. Il locale è un piccolo e confortevole buco che compensa con una lussureggiante vegetazione nella parte esterna. Ci sono i tavolini in ferro battuto, il pavimento maiolicato e il profumo di sciroppo d’acero e zucchero. Ordiniamo una colazione salata per lui e una dolce per me, per concludere poi con i tipici beignet, frittelle lievitate cosparse di zucchero a velo.

Dopo questa colazione dei campioni decidiamo di dirigerci al Lafayette Cemetery No.1 nel Gardens District. Tanto il Quartiere Francese è caratterizzato da edifici bassi con le porte colorate e le grondaie lavorate, quanto la zona verso il cimitero è costellata di bellissime ville in stile liberty nei colori pastello, ancora agghindate per Halloween. La fortuna ha voluto che come periodo di visita abbiamo scelto quello poco dopo il 31 ottobre, quindi abbiamo trovato la città ancora addobbata di zucche, ragnatele e pezzi di corpo penzolanti dai balconi.

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Di solito, quando vedo una casa che mi piace, immagino come sarebbe vivere lì, mettere le zucche sulle scale fuori dal portone, organizzare un barbecue nel mio enorme e curato giardino, sedermi nel patio con mio marito a bere una birra mentre Charlie, il nostro labrador, sonnecchia ai nostri piedi. Poi mi sveglio tutta sudata e mi ricordo che l’unica cosa che abbiamo a casa è un peluche a forma di sushi. Però ci stiamo lavorando.

Ancora prima di partire, mi ero informata sulle “DIECI COSE ASSOLUTAMENTE DA VEDERE SE NO SETTE ANNI DI GUAI” a New Orleans e ho letto opinioni controverse sui cimiteri, che pure sono una parte fondamentale della città. La conclusione che ne ho tratto è che informarsi prima sulle cose da fare non è mai male, ma poi il resto lasciatelo al vostro gusto, a quello che vi piace veramente.

A me piace tutto ciò che è un po’ macabro e spettrale, da ragazzina ero andata in fissa che un vampiro dovesse fare di me la sua sposa, uno dei miei Batman preferiti di sempre è quello di Tim Burton, quindi ho trovato la visita al cimitero interessante e con la giusta atmosfera. Le tombe abbandonate che riportano date lontane nel tempo, l’erba che cresce incolta nel marmo spaccato, il cielo plumbeo e gli alberi che allungano sulle lapidi le fronde pesanti. Intorno le ville confettose di Edward mani di forbice.

Quindi se vi piace il genere decadente, la visita in uno dei tanti cimiteri di New Orleans merita. E chissà che non vi troviate a incontrare Nicholas Cage che preventivamente si è fatto costruire una tomba qui perché il suo desiderio è essere seppellito in questa città.

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Il pomeriggio lo dedichiamo a un’altra delle attrazioni principali: il bayou. Nome cajun per le Westlands, è una zona del Mississipi fatta di paludi, canali e foreste dove poter ammirare gli alligatori e altri animali fantastici. Lungo la strada che ci porta al nostro tour, i segni lasciati dall’uragano Katrina sono ancora visibili nelle case abbandonate. Allontanandosi dal centro della città, si ha una maggiore impressione da America del sud, di banjo suonati sotto tetti di lamiera e gamberi d’acqua dolce tirati su con reti rimediate.

Siamo tutti molto eccitati da questa visita ai “gators” come li chiamano affettuosamente qui; io e il Dottore vestiti da Mr. Crocodile Dundee e un gruppo di arzille vecchie americane pronte ad affrontare la palude in infradito.

Il nostro capitano si presenta come un gioviale giovane uomo che ci intrattiene fino al momento clou: l’incontro con gli alligatori. Questi rettili silenziosi circondano la nostra imbarcazione con una velocità inaspettata e una calma preoccupante, per poi esibirsi nello show di questo tour, il nutrimento. Il capitano allunga un bastone con attaccato quello che sembra essere un marshmallow e ci invita a non sporgerci per non diventare a nostra volta dei marshmallow. Un alligatore esce fluido dall’acqua e con uno schioccare di fauci trascina giù la preda morbidona sott’acqua.

All’improvviso l’apocalisse: il cielo diventa nero in fretta e gocce come pugni iniziano a cadere sulla nostra barca, i fulmini illuminano la palude intorno e i tuoni sono così vicini che si possono quasi toccare.

Ora, io ho il terrore dei temporali. Non di essere presa da un fulmine e di finire croccante su qualche strada, ma una paura irrazionale che mi ha portato anche in terapia. Immaginate di vedere concretizzarsi davanti ai vostri occhi l’incubo peggiore, Freddie Kruger riflesso allo specchio, un coccodrillo su per il tubo di scarico, un brufolo il giorno dell’appuntamento con Ryan Gosling.

Mentre la nostra imbarcazione inizia a riempirsi di acqua e le vecchie lanciano gridolini quasi di piacere per questo avventuroso contrattempo, io mi nascondo tra le braccia del Dottore e intono una litania così lunga e ricca di bestemmie che sono stata scomunicata da circa 175 religioni diverse. Alla fine il nostro capitano mostra pietà e ci riporta a riva, dove io mi metto a correre verso il centro visitatori buttando giù qualsiasi ostacolo umano e non lungo il mio tragitto.

Rimaniamo in questa catapecchia di legno, fradici dalla testa ai piedi e confortati solo dal caffè bollente e da una guida che per farci dimenticare di aver visto la morte in faccia, ci ha permesso di toccare un baby alligatore. Nonostante questo momento da National Geographic, continuo a non sentirmi tranquilla, soprattutto quando un inserviente di sei metri per sei, all’ennesimo tuono, ridendo scuote la testa e dice: “Welcome to Louisiana, baby!”.

Tornati in albergo la sera tardi, io mi rifiuto di uscire ancora una volta lamentando uno stress post traumatico che intenerisce il Dottore e lo obbliga a ordinare la cena in camera.

A proposito, in America la mancia si lascia quasi sempre e obbligatoriamente. Ma se volete risparmiare ogni tanto, magari dopo una lunga giornata di camminata, ordinare da mangiare dai vari Uber Eats è un’idea valida.

GIORNO TRE – Questo è il giorno di mostrarmi per la donnina matura e indipendente che sono diventata negli anni: oggi vado in giro da sola. Lascio il mio piccolo programmatore sul luogo della conferenza e me ne vado un po’ a zonzo fino all’ora di pranzo. Raggiungo il Mississipi e gironzolo per i negozi lì nei dintorni, per poi ricongiungermi al Dottore per pranzo. Scegliamo, su consiglio di un’amica, un locale piccolo e affollato dove fanno i po’boy, il Killer Poboys. Dicesi po’boy un panino riempito di ostriche, gamberi d’acqua dolce o altri ingredienti e varie salse. La leggenda vuole che il termine nasca dall’espressione poor boy, per indicare gli sfortunati lavoratori di una compagnia di trasporti quando vennero licenziati, a cui venivano offerti gratis questi panini per sfamarsi. Noi, nel rispetto delle tradizioni locali, ne ordiniamo due a testa e vi assicuro che il terzo è stato evitato solo perché Alessio doveva rientrare alla conferenza.

Una volta salutati, io ho continuato a girovagare per il Quartiere Francese curiosando tra i negozi di antiquariato, quelli turistici e fotografando le case. Apro la solita parentesi, stavolta graffa per movimentare il nostro rapporto, per dire che a New Orleans si gira tranquillamente da soli, basta rimanere nei luoghi più centrali e affollati e non si hanno problemi. La serata si conclude prima bevendo quelle settordici birre con i compagni di corso del Dottore, chiacchierando amabilmente nell’unica lingua universalmente riconosciuta: l’alcol. Poi siamo finiti a mangiare al Desire Oyster Bar, un locale a metà tra un diner e un ristorante da vecchia Europa, dove mangiamo quello che di più tipico New Orleans ha da offrire, dal jambalaya al coccodrillo fritto. Una menzione particolare alle ostriche, che qui servono letteralmente in tutte le salse e a prezzi contenuti.

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GIORNO 4 – Altro giorno, altra corsa da sola impazzando per le strade di New Orleans. Stavolta tocca a Frenchmen Street, un’altra delle zone in cui si svolge la vita notturna di NOLA, fatta di case basse dai colori sgargianti e graffiti sui muri, per poi raggiungere Canal Street e i suoi grattacieli da grande metropoli. Questo duplice aspetto della città mi ha conquistato: da una parte l’aria decadente e spettrale della New Orleans della cultura creola e dei riti voodoo, degli edifici bassi e dei musicisti, dall’altra il carattere metropolitano fatto di strade ampie ed edifici imponenti.

Mi ricongiungo alla mia metà per l’ora dell’aperitivo e decidiamo di finire questa prima parte del viaggio con un mint julep, un cocktail originario degli Stati del Sud a base di menta e whiskey.

CONCLUSIONI – New Orleans è una città che merita una visita, anche se per stessa ammissione di chi ci abita, ha venduto la sua anima al diavolo del turismo e soprattutto zone come Bourbon Street sono caotiche e piene di cianfrusaglie a buon mercato per attirare la clientela. Resta il fatto che offre la possibilità di vedere una parte di America diversa da quella, per esempio, di New York. Qui la cultura degli schiavi si è fusa con quella dei padroni, dando vita a un mix di leggende e tradizioni di cui vale la pena far parte anche solo da turista. Quello che so è che ci sono cose che non ho potuto vedere e che mi fanno dire “io qui ci voglio tornare”.

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