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2019. Una non lista di buoni propositi

Ho pensato a lungo se partecipare anche io al tradizionale resoconto dell’anno che sta per concludersi così da fare posto ai prossimi dodici mesi nuovi di zecca e la risposta, mi sembra evidente, è stata perché no?
In verità vi dico che sto attraversando una fase di indolenza che mi avrebbe fatto desistere se 1) il Dottore non mi avesse minacciata di cose indicibili che comportano una perdita di sangue, se non avessi preso in mano il computer e 2) alla fine tirare le somme fa sempre un gran bene. Quello che ieri era il diario segreto, che a rileggerlo oggi fa morire dal ridere, oggi è un post, un blog, una newsletter. In tutti questi casi serve a prendere le distanze dalle esperienze, a fermare i momenti, a seguire il percorso che uno ha fatto, a condividere, a consigliare, ad aiutare.
Mai come quest’anno ho letto tante newsletter e articoli di blog, sono passata di palo in frasca dall’ascoltare un podcast sul potere emotivo del cibo, a leggere un post su Instagram. Ecco, il 2019 è stato l’anno in cui ho ricominciato a scegliere me; so che si dice spesso quando si scrivono cose per salutare il vecchio anno, ma io ho letteralmente scelto me. E nello scegliermi, ho scelto anche chi doveva accompagnarmi in questo cammino, a livello figurato e fisico.
Ho scelto, per esempio, Gianluca Diegoli, un uomo del marketing con una capoccia così, il quale nella sua ultima newsletter scrive: “… a fine anno si fanno i bilanci, di solito accompagnati da previsioni ma soprattutto da obiettivi. Per fare bilanci però ci si deve essersi fissati degli obiettivi: e io – come persona – non ho mai avuto granché voglia di fissarmeli. Un peccato, perché deve essere bello dire “wow, obiettivo riuscito”. Avere la risposta pronta a come sarai tra cinque anni. Cose così.”. In pochissime parole ha riassunto il mio anno.
Io non sono qui a riportare un bilancio del 2019 perché gli obiettivi che avevo ho dovuto modificarli in corsa. Il che non significa non avere ambizioni o progetti, ma vuol dire sapere quando essere indulgenti con se stessi. E io che non lo sono di natura, con me stessa soprattutto, sto imparando come fare.
Un’altra persona che seguo sui social, Myriam Sabolla, in un post recente su Instagram scrive: “Mi dispiace non essere sempre il role model che altri si aspettano da me. Che io stessa mi aspetto. E voglio imparare a farmene una ragione, e anche a raccontare che non tutto è rose e viole, nella vita.”.

Sul finire di questo anno, ho dovuto lasciare andare le aspettative di me e su di me per aprire le porte all’imperfezione.
A novembre, appena tornata da uno dei viaggi più belli della mia vita finora, mi sono dimessa. L’anno scorso concludevo il mio anno scrivendo del ruolo da team leader che mi era stato affidato all’interno della mia azienda. Come dice Valentina Aversano nel suo podcast Pesto, “si può essere altro, si può essere di più, di meno, dipende”. Questa cosa bisognerebbe ripetersela come mantra ogni giorno per non dimenticare che le cose non sono immutabili e scolpite nella pietra, ma possono e devono cambiare. Io ho iniziato il 2019 coprendo un ruolo che non avevo mai fatto, che mi ha portato a tanto dolore quando pensavo di non essere all’altezza e a una gioia incontenibile quando venivo ringraziata dal mio team per quello che stavo facendo.

Succede poi, come in amore, che il rapporto venga messo in discussione, perché cambiano le prospettive, gli obiettivi, i valori. Allora si può provare a resistere, a stringere i denti, a fare un passo indietro per non dare un calcio avanti, ma a un certo punto bisogna lasciare andare. Non tutti i rapporti valgono la pena di essere combattuti per tenerli in piedi. Alcune volte bisogna solo avere l’onestà di dire “questo non fa per me”.
Non è stata una decisione semplice, né una scelta presa sull’onda delle emozioni. Mi sono confrontata tanto e a lungo con tutta una serie di persone su cosa fosse meglio per me e alla fine mi sono lasciata indietro quel lavoro che tanto mi aveva dato dal 2016. Hanno influito sulla mia presa di posizione alcuni fattori non irrilevanti. Su tutti la presenza di un compagno di vita che si è dimostrato disposto a sacrificarsi pur di vedermi felice e di questo sono incredibilmente grata; non tutti possono dimettersi perché possono contare sullo stipendio dell’altro. So che se fossimo stati in difficoltà economica io questa scelta avrei dovuto rimandarla, ma dopo tanto discutere abbiamo convenuto che data la situazione di cassa, potevo permettermi di volere qualcos’altro.
Nonostante l’amore di questo ragazzo così giovane e così determinato, ci sono stati e ci saranno momenti in cui io crollerò e lui dovrà sostenermi non solo economicamente. Ho pianto a singhiozzi una domenica sera quando ho realizzato che il giorno dopo non sarei andata a lavoro. L’ho fatto di nuovo quando ho dovuto chiedergli dei soldi per una spesa che pensavo avrei dovuto affrontare. Dimettersi, come lasciare una persona, come qualsiasi altra scelta che compiamo, non è tutto rose e fiori. C’è l’umiliazione, la paura di essere troppo grandi e mai all’altezza per rimettersi in discussione, il senso di colpa.
Qui entra in gioco il secondo fattore: l’ambiente. I colleghi hanno una parte fondamentale nella nostra vita lavorativa, considerando che a volte li vediamo più spesso delle nostre famiglie. Fino a un certo punto i miei colleghi erano veramente fighi e alcuni lo sono rimasti, ma non era sufficiente. Sarebbe come pretendere che una coppia rimanga insieme perché guarda qualche serie tv insieme. Alcune delle persone che sono state assunte da un certo periodo in poi, si sono rivelate manipolatrici, arroganti e oltre tutto poco stimolanti. Succede. Ho pensato anche se fosse il caso di scriverlo o meno e poi mi sono risposta che sì, si può essere onesti a volte. Anzi bisogna esserlo e dire che non è vero che: “tanto tutti i lavori sono uguali, che ti credi pure dalle altre parti trovi lo stronzo”. Maddai!
Ma sempre per tornare alla mia metafora preferita, quella di una coppia, è come costringere due persone a rimanere insieme perché “tanto pensi che con un altro/altra sarebbe diverso?”.
Purtroppo le persone con cui stavo a più stretto contatto non si sono rivelate in grado di insegnarmi qualcosa o di apprendere qualcosa o di sostenere un discorso che andasse oltre le battute da osteria. Quindi voglio scriverlo perché magari qualcuno possa trovare conforto nelle mie parole: io me ne sono andata principalmente per cercare la mia strada, ma anche perché alcune persone sarebbero state da prendere a testate sul setto nasale. So che mamma non approverà quanto scritto e non solo lei, ma ragazzi, ho deciso che tra i miei valori ci dovrà essere sempre di più l’onestà.

A questo proposito, tornando a quanto scritto più su, nella ricerca di questa strada più mia, ho cominciato a frequentare persone che invece potessero contribuire in maniera più positiva alla mia vita.
Sono stata seguita da una mia amica in un percorso di counseling (sì Emma, sto parlando proprio di te) che mi ha aiutata tanto a fare chiarezza in quell’ammasso informe di paure e frustrazioni che mi stavano tenendo bloccata nello stallo alla messicana in cui mi ero infilata. Sì perché oltretutto io non sono granché capace a cercare lavoro mentre lavoro. Ho lasciato la mia azienda senza un piano B. Emma ha avuto un ruolo fondamentale nel tenermi la mano su questo nuovo cammino.

Quando si è infelici, di solito vengono emessi molti segnali, più o meno consci. L’abbrutimento che si era impossessato di me in conseguenza all’insoddisfazione professionale, ha portato a una serie di effetti, tra cui l’instupidimento. A un certo punto mi sono chiesta se non fossi diventata irreversibilmente stupida; non leggevo più, non scrivevo abbastanza, non mi interessavo alle cose. La mia attività principale era tornare a casa e stordirmi con Netflix. E pensare che da ragazza ero una lettrice vorace, cosa di cui si stupivano anche i professori. Io ero quella che al liceo fece il tema migliore dell’istituto, tanto da meritarmi la stretta di mano del presidente della commissione.

Poi vengo a conoscenza di un gruppo di lettura di Roma, Strategie Prenestine, che si incontra una volta al mese per proporre un libro da leggere tutti insieme. All’inizio neanche ci volevo andare per non trovarmi di fronte a gente preparatissima dovendo ammettere che io ero lì per essere curata da questa mia apatia intellettuale. Sono andata, ho iniziato a leggere i libri proposti mensilmente come compito da fare, ho continuato scegliendone di mia spontanea volontà, ho conosciuto delle persone veramente in gamba, con alcune ho iniziato a scrivermi, a confidarmi. Di questo ringrazio le fondatrici Valentina Aversano e Carola Moscatelli, per avermi rassicurato che non stavo diventando stupida.

Le persone, dicevamo, che fanno sempre la differenza. Ho rinsaldato ulteriormente i rapporti con i miei amici di sempre, alimentato quelli freschi, iniziato a conoscere persone nuove. Ho cercato chi mi sembrava mi potesse far crescere, non solo a livello professionale, ma umano. Ho perdonato e ho visto perdonare. Sto provando a perdonare me stessa di non essere perfetta, di essere fallibile. Mi sto circondando di persone che sappiano ricordarmelo, con cui confrontarmi, da cui apprendere.

Siccome sto perdendo il filo del discorso da quando ho iniziato a scrivere perché i pensieri e i sentimenti si affollano per essere appuntati, riassumo dicendo che il 2019 è stato pieno di persone. Come ho già detto altrove, se potessi scriverlo sul curriculum, metterei “Agnese Iannone. Nata a Roma il primo dicembre millenovecentottanta. Amata moltissimo”.
Quindi le persone, ma anche tutto l’amore che sono riuscite a trasmettermi in questo anno di crisi. Non è scontato, ma l’amore lo vedi dalla fine, non dagli inizi. Perché siamo tutti bravi nell’essere amichevoli e comprensivi quando le cose vanno bene, ma quando le strade si dividono, cosa rimane?
In questo 2019 ho visto coppie di amici, anche di lunga data, lasciarsi. Ho visto gli atteggiamenti cambiare, la rabbia sostituire il rispetto e ho pensato a quanto è facile puntare il dito e sgomitare per sedersi sul trono della “parte lesa”. L’ho visto fare nella vita lavorativa e in quella privata, giudicare senza mai mettersi in discussione. Sottolineare le mancanze e addossare le colpe.
Per fortuna per ognuna di queste, esistono persone che sanno ringraziare, sanno essere riconoscenti, sanno andare avanti in maniera sincera. Agli amici che stanno soffrendo per una storia finita, ai colleghi che rimangono tali anche quando le strade si dividono, a me che dovrò ancora lavorare sulle mie paure voglio ricordare di circondarsi di persone valide, oneste, compassionevoli, stimolanti. Che esistono e non bisogna mai smettere di pretendere perché “tanto dalle altri parti è uguale”. Non è uguale, non credeteci.

In conclusione, sperando di aver mantenuto un discorso non del tutto farneticante, come dice il buon Gianluca, non faccio bilanci perché non mi ero posta degli obiettivi. Ero partita team leader e mi sono dimessa. Ho fatto un viaggio bellissimo in America che considero un po’ la nostra luna di miele. Ho ricominciato a leggere, a scrivere, ho tenuto un bullet journal, sono andata a trovare gli amici su e giù per l’Italia. Ho un cucciolo di fidanzato che ogni volta mostra la dignità di un re e mi ricorda di comunicare, sempre, con tutti. Ho organizzato un Capodanno D&D con mia sorella e il ragazzo. Non ho speso tutti i soldi della liquidazione ma lo farò per qualche corso che ho già adocchiato. Ho una famiglia che mi ama. Ho degli amici che mi amano. Anche quest’anno ho accumulato tanto di quell’amore che potrei passare il 2020 in un eremo ma corca’ che lo farò perché voglio festeggiare i quarant’anni. Non ho un lavoro e al momento sto cercando di capire cosa dove perché. Ho qualche idea ma niente di serio. So che a questo punto della mia vita, posso dire cosa non mi va di fare. Non mi va di svegliarmi la mattina “tanto a fine mese mi pagano”. Non mi va di accettare qualsiasi cosa perché un lavoro è un lavoro. Non mi va di circondarmi di persone che contribuiscono alla mia vita con lo spessore di un filo che penzola da un bottone.  Non mi va di rimanere ferma per la paura di essere fuori tempo massimo per fare qualsiasi cosa, perché alla mia età hanno già tutti scritto un ebook, fatto dieci anni come consulenti nell’azienda prestigiosa, sono freelance affermati e sanno tutto di SEO, SEM e altre parole in libertà.

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Il mio 2019 finisce con tante sbavature, cose che non so fare, cose che devo ricominciare a imparare, ma con qualcosa che era da tanto che non mi permettevo, il tempo per farle.

 

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Addio 2018 e grazie per tutto il pesce

31 dicembre 2018, quasi duemiladiciannove. Tempo di bilanci e bilance, fatti sempre con le migliori intenzioni e con le migliori intenzioni ignorati fino all’anno successivo.

In questi giorni sto leggendo, nei pochi ritagli di tempo che riesco a strappare al mio lavoro, delle considerazioni sparse che le persone stanno facendo a proposito di questo anno che sta volgendo al suo termine. Di alcune non capisco il senso, come quando su Facebook la gente scrive post del tipo “la notte porta consiglio” o “ah se potessi parlare…”.

Ma cribbio fatevi comprendere! Non li fate gli status che capite solo voi e quattro amici vostri. A volte neanche quelli perché pure loro sotto vi commentano “ma perché che è successo? Ti scrivo in privato”. Stare sui social, secondo la mia modestissima opinione di non addetta ai lavori, è stare in un virtuale Hyde Park, dove ogni domenica ogni cittadino può salire su un banchetto ed esprimersi su qualsiasi tematica. Ve la ricordate la scena di Nanni Moretti? Allora è bene che concludiate l’anno alla grande riprendendolo qui.

Quando scrivete qualcosa, fatevi capire, esponetevi, raccontatevi, non usate le parole di altri, usate le vostre. Che a volte fanno cagare ma questo è un altro discorso, almeno ci avrete provato.

Ci sono, invece, altri spunti che mi fanno pensare ancora bene dell’umanità. Quest’anno ho scoperto persone di cui mi piace leggere le parole, che non necessariamente condivido, ma che mi spingono a riflettere. Le ho trovate tutte su Instagram, tranne una che conosco di persona con mio sommo onore.

Ecco, se volete leggere qualcosa di bello, di delicato, di divertente ma anche di irriverente, che vada oltre il “quest’anno ho ritrovato me stessa” (a cui vorrei rispondere, perché prima ‘ndo stavi?), la mia short list di persone da continuare a seguire come buon proposito per il 2019: Miriam LeporeMariclerSignorinalave e ultima ma non ultima, Mita Borgogno che conosco nella vita privata e che vorrei come vicina di casa, solo per andarci a prendere il caffè e lasciarmi contagiare dalla sua vivace intelligenza.

Tutte donne, perché mai come quest’anno ho vissuto esempi femminili positivi ed esempi negativi, ma tutte che hanno contribuito a farmi continuare a scegliere il tipo di persona che ho la possibilità di essere ancora.

Quante parole ho usato per dire che anch’io voglio partecipare al grande racconto collettivo del 2018 e lo farò con l’insegnamento dell’illustre genio Paolo Fox.

AMORE – Che cosa difficile è l’amore. Verso se stessi, il prossimo o uno sconosciuto. Come diceva giustamente un mio amico sere fa a cena, il mio 2018 è stato per metà una vera merda, per l’altra metà La La Land ma senza il finale drammatico.
Dopo cinque anni ho interrotto la precedente relazione che avevo e sono andata via di casa. Sono tornata a vivere con i miei. Ho raccolto la mia vita in alcune scatole e sacchi neri che mia madre ha poi etichettato per non perderle in quella bellissima confusione che è casa dei miei genitori.
Quante cose ho capito e quante lacrime ho versato, ma anche quanto affetto inaspettato o semplicemente dimenticato.

Intanto quello della mia famiglia. Sono tornata da loro a 37 anni, dopo non so quanti fuori di casa. Sono tornata che mi sentivo sconfitta e umiliata. Eccomi lì, a guardare dall’altra parte della strada i quarant’anni mentre cerco di far entrare tutta la mia roba nella stanza degli ospiti. Non sono sposata, non ho figli, ho chiuso l’ennesima relazione e la seconda convivenza. Di quel giorno mi ricordo mia madre che mi chiede di accompagnarli al supermercato. Secondo me pensava che mi sarei impiccata al lampadario del soggiorno e quindi volevo tranquillizzarla sul fatto di essere solo la figlia fallita, non autolesionista. Al supermercato incontro un mio amico, con la moglie e il figlio incastrato nel carrello. Per un attimo mi sono guardata da fuori e ho pensato dove avessi fallito, io lì con la felpa troppo grossa, la faccia gonfia di pianto e i miei al seguito tipo scorta, mentre i miei coetanei sembrano così funzionali con le loro famiglie e le loro spese sensate.
Ho pianto tanto di umiliazione in quel periodo, sono tornata in terapia, mi domandavo a che punto qualcosa in me avesse smesso di farmi crescere. E di statura e di maturità.
Loro, però, mi hanno sempre protetta, anzi meglio, non mi hanno mai giudicata. Il che non vuol dire non avermi messa in guardia dalle situazioni o aver messo in guardia le situazioni da me, di certo non si sono mai trattenuti dal dirmi le loro preoccupazioni. Quello che hanno fatto è stato amarmi anche mentre mi dicevano “stai facendo una stupidaggine”.
Non di meno mia sorella, il mio giudice più feroce e il mio alleato più fedele. Ho scoperto che è facile farsi gli affari propri pur di non immischiarsi in situazioni scomode, che è più facile essere la Svizzera che la Germania. A nessuno piace sentirsi complice di qualcosa di brutto o potenzialmente dannoso. Tranne alcuni che hanno fatto voto di fedeltà a loro stessi. Mia sorella ha permesso al nostro rapporto di incrinarsi pur di dirmi quello che pensava di me e della mia storia precedente. Si è presa i miei silenzi e le telefonate non fatte, il rancore e gli anni che passavano. Ferma, granitica, impavida.
Questo lo sto ancora imparando, a non avere paura di parlare per la paura di perdere una relazione. È faticoso e non so se ne sarò mai pienamente in grado, ma i rapporti che si reggono sull’omertà, forse sarebbe bene reciderli.

Un’altra cosa che non sapevo, è quanto mi sarei sentita fallita a chiudere un’altra storia a 37 anni. Quando mi dicevano che dopo i diciott’anni è tutto in discesa libera verso la vecchiaia, avrebbero dovuto dirmi quanta stanchezza fisica ed emotiva si prova dopo i 35 anni a ricominciare. Ci sono cose peggiori? Certo, il nostro governo attuale. Ma a gennaio 2018 io tornavo nella mia camera di adolescente chiedendomi cosa volessi di più. Perchè questa è la grande domanda che uno si fa quando succedono cose come una coppia che si lascia o un lavoro che si cambia: cosa vuoi di più?
Ho dovuto arrampicarmi sulle vette dei miei sensi di colpa per superare il pensiero che il sacrificio può essere una componente di una relazione, non la rinuncia al proprio io. Ho dovuto ascoltare la mia terapeuta ripetermi come un mantra che, salvo alcuni casi specifici, quando due persone decidono di separarsi, non c’è una vittima né un carnefice, ci sono due individui che non vanno più bene l’uno per l’altra. Che può succedere, che bisogna sapersi mettere in discussione e porsi le giuste domande. Anzi, porsi le domande, perché troppo spesso non ci si chiede a sufficienza per rimanere in una confortevole ma sicura ignoranza.

Il 2018 è stato l’anno in cui mi sono detta che alcune cose e alcune persone non funzionavano più per me. Le ho lasciate andare e mi hanno lasciato andare. Anche qui un appunto lo voglio fare, con le parole di Franco Arminio: “Dammela tu una brutale vicinanza, gira la punta del cuore, avvisa le costole che non sono sole, fai muovere la testa verso la gioia, tagliami i ponti con la paura. L’amore deve essere un assedio, ferro e fuoco, colpi violenti, morsi, per aprire la strada alla dolcezza”

Quando capisci che l’esercito ha lasciato sguarnita la fortezza del tuo cuore, hai già la risposta ad alcune domande. Se non lotti più per una persona e se una persona smette di affondare le unghie per trattenerti, bisogna avere un’estrema voglia di verità e dirsi che può finire.

Perché un rapporto può finire e – sorpresa – nessun innocente smetterà di respirare per questo. È dolorosissimo essere lasciati ed è doloroso andarsene ma shit happens. Deve per forza finire con combattimenti alla Daredevil? Non necessariamente. Può essere una giustificazione il non essere felici? Sì, molto. Ecco un altro paio di cose che ho capito nel 2018. Non servono storie di abusi per giustificare una rottura, si può essere infelici anche nella quiete. Il che ci porta dritti al secondo punto della mia seduta di analisi non richiesta: se un partner vi dovesse dire che non è più felice, per carità non dite quella banalità che viene solo dopo a “tanto è tutto un magna magna”, cioè “perché cosa ti manca?”. Ragazzi, tutti insieme ora ripetiamo che un tetto sulla testa non è l’unica cosa che regge un rapporto. Se una persona dice di non essere più felice, l’incantesimo non è rispondere “ma se non litighiamo mai, ci piacciono le stesse cose, siamo stati a Katmandu l’anno scorso!”.
Chiaramente, essendo alla mia terza convivenza, cosa posso insegnarvi? Sono la Liz Taylor delle coppie di fatto. Ma una cosa l’ho capita, ridurre il disagio di una persona (di qualsiasi natura esso sia) non è mai la mossa giusta. Non si può banalizzare il malessere di una persona spiegandogli che in Africa i bambini muoiono di fame. Va bene non indugiare nelle saghe mentali arrivando alla sesta stagione delle vostre elucubrazioni solo per il gusto di rotolarvi nella autocommiserazione, ma neanche trattare l’infelicità un tanto al kg.

Quindi nel 2018 ho lasciato tutto questo e quando l’ho fatto ho cominciato a intravedere una vita più adatta a me. Certo non è stato facile. Quando dicono che chi lascia è più forte, io vorrei fargli vedere certi lasciati quanta disperazione provano quando stanno lì a farsi i selfie con il bicchiere in mano. Tutte cazzate. Io me ne andavo ma ero distrutta. Piangevo in ufficio, piangevo a casa, piangevo in macchina. i kg che ho perso quei mesi erano liquidi per lo più. Ci sono stati momenti che sarei voluta tornare indietro, alla routine che mi ero costruita, scomoda ma conosciuta, che mi mancavano certi gesti abitudinari, il letto matrimoniale, sentire il respiro dell’altro.

Un bel giorno, proprio come dicono, ho incontrato una persona. Durante il mio minimo storico di voglia di vivere, quando uscivo dal bagno degli uffici sventolandomi gli occhi perché nessuno doveva sapere, quando meno ero pronta ma la vita ha un senso dell’ironia feroce, ho conosciuto un ragazzo. Nel senso letterale del termine. Dieci anni di meno. A scriverlo è ancora peggio che a dirlo. D I E C I A N N I D I M E N O.
Anche lui impegnato. Un nerd con la testa tra le nuvole e i piedi sotto la sua scrivania da sviluppatore.

Avete mai visto The Big Bang Theory? Sarò breve, quattro amici secchioni di cui uno si innamora di una bionda giuliva che a sua volta lo ricambia. Si sposano.
All’inizio non credo fossimo esattamente l’uno il tipo dell’altra: lui così analitico, io così dispersiva. Lui con la testa sulle spalle, io sempre pronta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Lui così giovane, io così intrappolata nelle mie sovrastrutture di mezza età.
All’inizio non importavano le nostre differenze, lui era impegnato, io stavo vedendo un’altra persona, figuriamoci, 27 anni, ma che ne sa della vita?

Se avessi al gioco del lotto le stesse probabilità di vincita che ho nel sottovalutare le situazioni, sarei su un atollo a scrivere le mie memorie. Invece sono in una casa in affitto e se alzo gli occhi dallo schermo vedo il mio giovane fidanzato che scrive sul suo di computer.
È stato facile arrivare fino a qui? Ma manco per niente. Ci sono state domande endogene ed esogene sull’età. “Ma tu lo sai che quando questo avrà 30 anni tu ne avrai 40?”. Sì, ho fatto le scuole dell’obbligo e so aggiungere dieci a una cifra. “Sei pronta a uscire con i suoi amici ventenni?”. Io non sono pronta a uscire con i miei di amici!
A parte gli scherzi, è stata davvero dura. Mi sono chiesta se non fossi io regredita a tal punto da innamorarmi di un ragazzino. Se non avessi qualche problema che mi impedisse di relazionarmi con i miei coetanei. Se un ragazzo non contribuisse alla mia incapacità di crescere. Ancora oggi ogni volta che ci guardo allo specchio penso che forse il botox non è un’idea così lontana, ma alla fine di questo 2018 so che di Alessio non sono i suoi anni ad avermi colpito. Quello che mi ha fatto decidere di prendermi tutti gli sberleffi del mondo è stata la sua presenza così forte. In un momento in cui gli uomini quarantenni che mi orbitavano intorno non erano in grado di prendere alcuna decisione per quanto scomoda, il ragazzo ha dimostrato un’integrità e un polso inaspettati.

Ha deciso di lasciare la sua vecchia vita per una nuova e totalmente sconosciuta relazione con me. E io non sono la persona più accomodante di questo mondo. Ha deciso di attraversare la melma quando qualcuno ha deciso di esporci al pubblico ludibrio solo perché è facile salire sul carro dei vincitori. Non ha vacillato quando ci sono state promesse le mazzate (che per altro io sto ancora aspettando, quando volete che me sto a fa’ vecchia) e mi ha stretto ancora più forte quando stavo per lasciarmi cadere, dalla stanchezza e dalla rabbia. Non ha usato la sua situazione familiare per elemosinare la misericordia di nessuno. Non ha fatto valere certe cose che nell’era dei social sarebbero antipatiche a farle uscire. È rimasto fermo mentre tutto crollava.
È un santo? No, l’ho guardato anche nudo e non ci sono ali. Ha sbagliato e ancora sbaglierà, ma stavolta spero di esserci io a fallire con lui.
Un’ultima cosa: quando vi diranno che è troppo presto per una nuova storia, che c’è qualcosa di losco, che sarebbe meglio rimanere da soli quei quattro cinquemila anni per ritrovare se stessi e capire il senso della vita, rispondetegli 42.

LAVORO – Pensavate che non arrivasse mai eh. Sono una più di cuore che di cervello, ma anche lavorativamente parlando è stato un anno lungo due. A fine 2017, la mia azienda cominciava ad assumere i connotati di quello che saremmo diventati a fine 2018. Abbandonavamo quello di cui ci eravamo occupati fino a quel momento per un qualcosa di completamente diverso, da una piattaforma più creativa inerente alla fotografia, allo sconosciuto mondo dell’insurtech. Dicesi insurtech l’innovazione applicata all’industria assicurativa.
All’improvviso scoprivo due cose, anzi facciamo tre e crepi l’avarizia.
1) Esiste un’industria assicurativa e io ne faccio parte, sono diventata la signorina Silvani 2.0
2) Esistono parole come blockchain e digital transformation. Dopo supercalifragilistichespiralidoso pensavo di non poter pronunciare termini più complicati.
3) I colleghi, nel bene e nel male, diventano parte della tua storia. Anche quando odi tutti ed entreresti in ufficio con un mitra, sono attori nello spettacolo della tua vita. Mai come in questo anno ho pianto tanto quando qualcuno ha dato le dimissioni, mi sono ubriacata e fatta riportare a casa, ho discusso alzato la voce abbassato gli occhi morso la lingua lanciato occhiatacce. Ho imparato a usare programmi di cui ignoravo l’esistenza, a costruire rapporti a distanza, a non farmi denunciare dopo una giornata passata al telefono a spiegare che “no non siamo uno studio peritale, sì signora è un servizio nuovo, lo so che lì a Cogne vi conoscete tutti ma non verrà il perito Zampetti”.
Mi sono fatta il fegato grosso e il sangue amaro quando non ho condiviso delle decisioni, ma ci sono state cene bellissime e pause sigaretta memorabili.
Nel 2019 porto con me i frutti di un anno intensissimo, sono stata scelta come team leader del mio reparto. Credo sia un’espressione per dire “ortolano” ma io questo cetriolo me lo prendo volentieri. Qualcuno ha creduto in me e ha deciso di affidarmi l’onere e l’onore di un ruolo con cui mi sto ambientando. Ancora devo prendere le misure e capire che non posso mettermi a piangere davanti a tutti e urlare “io non lo so, lasciatemi morire qui, tanto la vita fa schifo e moriremo tutti”, perché a occhio e croce un team leader deve essere una guida, non una zavorra. Confido nel fatto che ho dei colleghi bravi e molto pazienti.
Il 2018 lavorativo si conclude con la stessa consapevolezza di quello sentimentale: non vi accontentate, non vi sedete nella comodità del posto fisso, di cosa vai cercando di più. Due anni fa ho rischiato tutto e ho perso tanto, ma ho raggiunto degli obiettivi che non credevo.
Propositi per l’anno nuovo: non lavorare di meno, perché a me lavorare piace pure troppo, ma lavorare meglio.

SALUTE/FORTUNA – Non mi ricordo quale dei due si usi negli oroscopi. Comunque, la salute per ora c’è. Sono sopravvissuta ai colleghi malati, ai figli dei colleghi malati, alle malattie veneree. Sono dimagrita dal dolore e poi ingrassata di nuovo per la felicità. Ho combattuto con i denti del giudizio, ho donato il sangue ho intrattenuto un rapporto di amore e odio con la palestra.

La fortuna. Credo di averne avuta così tanta che ho il terrore di rivelarlo. Ultimamente ho sviluppato il terrore di avere una malattia terminale perché non posso essere così sfacciatamente felice.

Ho la fortuna di avere una famiglia tutto sommato solida.

Ho degli amici incredibili. A volte incredibilmente duri quando mettevano Alessio in guardia da me. Più spesso di supporto quando mi hanno dovuto sostenere mentre continuavo a cadere.

Di questo 2018 mi porto via Alessandra e Benedetta che mi aiutano a portare via le cose dalla vecchia casa. Ricordo Alessandra che mi guida per casa costringendomi a concentrarmi e Benedetta che afferra vestiti a mazzi. Di quella sera voglio che rimanga anche uno allora sconosciuto Lorenzo (il ragazzo di Benedetta) che mi porta un fiore e io che scoppio a piangergli davanti.
Porto con me Francesco, che ha ascoltato i miei deliri e il primo a dirmi che i santi non esistono neanche in cielo.

Porto Barbara che ha aspettato con pazienza che fossi pronta a parlare e poi ha ascoltato audio di venti minuti per superare le barriere geografiche.
Porto Meddi e Manu, Ruggero, Roberta che vorrei come fidanzata e tutti quelli che mi conoscono.
Porto Michele che mi ha stretto la mano per tutta la strada che mi ha portato dalla vecchia storia alla nuova.
Porto il bello che i social mi hanno regalato, le persone valide, gli abbracci sinceri. Ho la fortuna di aver conosciuto persone straordinarie, tutto il resto è rumore di fondo.

La fortuna è stata anche quella di poter viaggiare. Dublino con Benedetta e Silvia, le scogliere ventose, la birra e le luci dentro ai pub.
I Cure a Londra con mia sorella, le strade, lo shopping e ancora la birra.
Ho girato la Toscana, le Marche e sono tornata nella mia amata Palermo. Ho mangiato piatti tipici e ascoltato storie di un’Italia che ogni tanto si ricorda chi è. Ho fatto cene, visitato musei e partecipato a feste.

Ho visto New Orleans per la prima volta e sono tornata a New York per stringere di nuovo a me Barbara e la sua famiglia, ma questa è una storia che merita un racconto a parte.

Il 2018 finisce in maniera completamente diversa da come era iniziato. Un po’ ho avuto fortuna, un po’ ho lavorato sodo per ottenere certi risultati. Di certo non lo dimenticherò tanto facilmente.

Addio 2018 e grazie per tutto il pesce.

 

 

Travel

Marche. Un racconto di lotta


Si può partire con una premessa in un articolo sul blog? E con una domanda?

Siccome tutto mi si può dire, tranne che non sono generosa di parole, ce le ficco entrambe. La premessa è che ho il brutto vizio di interessarmi davvero a qualcosa solo se ben raccontato. Non so se dipende da una soglia dell’attenzione di un cane quando vede una pallina o da un amore viscerale per la letteratura. Fatto sta che io capisco le cose profondamente quando riescono a vestirsi da storie.

Questo ci porta dritti al punto, il mio weekend nelle Marche. Sì, ancora una volta. Speriamo non per l’ultima volta.

Io e questa regione ci siamo piaciute in fretta e come ogni passione che brucia, la prima volta che ci siamo incontrate sono rimasta letteralmente scottata. Era un luglio, credo, quando il sole imperdonabile delle due del pomeriggio mi regalava un’ustione sulle gambe. Di quel giorno mi ricordo di essere entrata in una farmacia di Ancona come una tossica senza più metadone, chiedendo al farmacista di vendermi una qualsiasi cosa. Soprattutto se finiva in -ina, morfina cocaina codeina sarebbero andate benissimo.

Ora, l’amore funziona così. Al contrario di ogni buon senso, una volta che ti scotti, devi ritornare tra le fiamme. Quindi eccomi ancora una volta a voi, o Marche, però a ottobre che non mi ci fregate più con il mare.

L’occasione è per una ottima causa, la manifestazione #ripartidaisibillini che intende riportare l’attenzione e il turismo sulle zone colpite dal sisma. E qui arriviamo a quanto accennato nella premessa: le Marche sanno raccontare. Nonostante le cicatrici che ancora si vedono nei paesi e mentre si percorre la regione, sanno raccontare. Ma ancora di più, sanno raccontare la lotta.

Troppi romanzi e film mi hanno fatto appassionare non semplicemente alle storie, ma a quelle di personaggi bizzarri, un po’ strani, che la gente definisce i matti.

Quella che vi sto per narrare è la storia di una parte del più vasto racconto di una terra che non vuole mollare e di alcuni dei suoi protagonisti.

Siamo a Sarnano, un comune della provincia di Macerata che conta poco più di tremila anime. Sarnano è uno di quei posti che quando nevica diventa un presepe, che ha il centro storico in alto e da lì domina il resto del paese, che gode della protezione scenografica dei Monti Sibillini e che sta ancora lottando per rimettere in piedi quello che ha visto crollare.

Il nostro ospite è Andrea, direttore commerciale delle Terme di San Giacomo  che ci accoglie nella struttura termale insieme a Paolo, il direttore sanitario. Scopriamo immediatamente come l’impianto originale sia andato distrutto durante il terremoto e allora cosa pensano di fare tutti loro invece di andarsene e lasciarsi alle spalle le macerie? Restano ovviamente e si sbrigano a riaprire l’attività in una struttura già esistente ma chiusa. Qui stanno rinascendo, ancora più forti, più grandi, parlando delle loro attrezzature all’avanguardia come se le conoscessero una a una (cosa probabile) e sottolineando accorati la differenza tra terme intese come il bagnetto tipo Cocoon e cure termali. Mi colpisce la loro perseveranza, io che se perde acqua dalla doccia vorrei dare fuoco a casa, e soprattutto mi colpiscono le parole di Andrea. Nel raccontarci la corsa per riaprire lo stabilimento nonostante tutto e tutti, dice: “Nella sfortuna, abbiamo avuto fortuna invece. Il posto dove siamo ora sembra quasi che stesse aspettando noi e che tutti gli eventi si siano messi in modo tale che aprissimo qui”.

Questa è la prova che il bicchiere mezzo pieno esiste. Ed è pieno di acqua sulfurea.

Dopo aver lasciato Paolo, Andrea ci porta a conoscere un altro dei protagonisti di Sarnano, Andrea anche lui, che insieme alla moglie Paola gestisce la Patata Bollente. Il piccolo locale porta il nome del film con Edwige Fenech e Renato Pozzetto, ma è anche un monito. Chi glielo fa fare a una coppia così giovane e di talento di restare qui, con questa patata bollente tra le mani? Invece eccoli qua, Andrea che va a comprare la crostata la mattina per la sua brigata e Paola che guida la sua cucina con il piglio di un generale.

Quello che hanno da dire, lo fanno soprattutto con il cibo. Piatti ben eseguiti, equilibrati, saporiti, che non ti aspetti da un ristorante messo su una curva di una strada di passaggio. Se è vero che in Italia si mangia bene un altro po’ pure a casa mia, le Marche si danno un gran da fare per primeggiare. All’antipasto di affettati e formaggi io ero già commossa e pronta a chiedere la residenza, ma quando sono arrivati i quattro primi (“così a pranzo assaggiate i primi e a cena provate i secondi”) ho pensato che il mio povero cuore non avrebbe retto. No, non per i grassi saturi sciocchini. Potrei provare a darvi un’idea di quello che abbiamo mangiato, ma voglio che ci andiate e non spoilero nulla. Dirò solo: ravioli ai pistacchi, speck e pomodorini arrostiti con ripieno di ricotta e pistacchi. E quando pensavo non potesse esserci nulla di più perfetto di quel momento, sono arrivati i dolci.  Per non parlare dei vini. Devo fare un’ammissione, io ho sempre snobbato i vini marchigiani credendo che esistesse solo il Verdicchio. Poi a Ripatransone ho scoperto la Passerina della Tenuta Cocci Grifoni. Poi a Sarnano hanno stappato delle bollicine quasi commoventi che mi hanno fatto capire che non tutti quelli che hanno bevuto solo Verdicchio sono persi.

Rimpinzati a dovere dalle sapienti mani di Paola e dignitosamente brilli, conosciamo Isabella, la nostra guida per il resto del pomeriggio. Isabella racconta la sua terra con dolcezza e mostra una pazienza di Giobbe ogni volta che le chiediamo di fermarci per una foto. E di occasioni per fermarsi nella zona dei Sibillini ce ne sono da sfidare la calma di chiunque. Visitiamo Sassotetto con la sua casetta dal tetto rosso e gli alberi colorati di autunno. Vediamo le cascatelle e i monti azzurri tanto cari a Leopardi. Giriamo per la Sarnano medioevale quasi del tutto svuotata dopo il sisma, ma bella in un modo discreto mentre le luci dei lampioni cominciano a illuminare di arancione i vicoli.

La nostra prima giornata si conclude di nuovo da Paola e Andrea per assaggiare la seconda parte del menù (i secondi, succosi, carnosi, voluttuosi secondi) accompagnata da alcuni rossi veramente notevoli.

SECONDO GIORNO – Il risveglio nel bosco (sì, il residence delle terme è circondato da conifere) è come me lo aspettavo. Silenzioso e fresco appena messo un piede fuori dalle coperte.

Prima di colazione, il nostro amore per la divulgazione scientifica ci impone di provare almeno una vasca con vari getti per l’idromassaggio, così da poterne testare la validità. Prova superata, usciamo dall’acqua rinvigoriti anche nello stomaco e andiamo a fare colazione in un piccolo bar (la Coccinella Golosa) con una produzione dolciaria di tutto rispetto. Siccome i veri eroi si riconoscono dal nemico, noi affrontiamo il nostro sovradimensionato cornetto con stoicismo. Menzione d’onore al mio goloso nerd che di fronte al dilemma se prenderlo con crema o pistacchio, li ha presi entrambi.

Abbiamo tempo per vedere di nuovo il centro di Sarnano alla luce del sole, comprare un ciauscolo che si sentiva così solo lì dietro al bancone ed è già ora di pranzo. Non so se sono io o questa regione, ma qui le ore sono scandite dai pasti. Sono le coratella in punto. Ci vediamo a ciauscolo e tre quarti. Il film comincia alle fettuccine col tartufo, tartufo e mezza.

Il pranzo viene servito in una specie di rifugio (il Chioschetto) all’ombra dei Monti Sibillini, esattamente a Madonna dell’Ambro, dove il panorama è bello a dir poco e i vari gruppi si sono ritrovati per fare bisboccia insieme.

La manifestazione #ripartidaisibillini, infatti, vede più gruppi fare percorsi diversi: chi a piedi nel bosco, chi in mountain bike. A me è toccato il percorso benessere e una quaglietta lardellata che chi se la scorda più. D’altronde c’è chi ha il fisico da trekker, chi da bagno turco.

Finiamo questa piccola avventura di fronte a teglie di fettuccine al ragù e carne alla griglia, brocche di vino che passavano di mano in mano e le risate.

È tempo di salutare di nuovo le Marche, di dire loro che torno presto, che ormai parte della mia storia è scritta anche qui. Mi porto dietro il racconto di chi poteva andarsene e invece ha preferito restare. Di chi è stato dimenticato dallo Stato ma continua a lavorare per la sua terra. Di chi crede che questo è il momento di risorgere.

Risorgete, Marche, più belle e forti di prima. Io rimango qui ad ascoltarvi.

 

 

Travel

Magerada (la d è muta)

Quando eravamo piccoli, l’anno veniva scandito da due momenti: le vacanze di Natale e le vacanze estive. Crescendo pensavo che le cose sarebbero cambiate, che avrei avuto altre scadenze e altri ritmi, invece come suggeriva una grande pensatrice del ‘900 “cambia il tempo ma noi no”. Anzi, tutto sommato neanche il tempo.

Prima della pausa di Ferragosto, in ufficio si respira quella duplice aria di apocalisse e fancazzismo. Da una parte, tutte le rotture diluite nei mesi si presentano alla porta come Equitalia e vengono fatti discorsi da fine dell’anno però ad agosto (sapete no? Abbiamo lavorato bene, gli obiettivi raggiunti, quelli da raggiungere, a settembre dovremo sforzarci di più, buona fine e buon inizio). Dall’altra, la fatica dei mesi passati si presenta sottoforma di voglia di morire mista a capacità di attenzione di un cane quando vede una pallina.

Ed è in questa atmosfera che io e Alessio (diamo un nome all’uomo che rende di nuovo felici i miei giorni) . ci concediamo un weekend nelle Marche. L’occasione è rappresentata da una manifestazione che una tenuta vinicola di mia conoscenza organizza da qualche anno e che ho voglia di vedere dal vivo. Decidiamo di staccare solo per un paio di giorni, perché il viaggio più corposo sarà a novembre e nel frattempo la parola d’ordine è risparmiare. Però passare tutta la settimana di ferie a casa, per quanto ricca di cose da fare, ci sembrava altrettanto brutto. Ed ecco venirci incontro le Marche, prima fermata: Macerata.

MACERATA – Optiamo per la città marchigiana con la scusa, per Alessio, di rivedere degli amici, per me di conoscerli per la prima volta. Sulla spinosa questione del debutto in società di una nuova coppia, parleremo un’altra volta e sempre se mi ricordo, perché ho quel problema con l’attenzione di cui non so se vi ho già parlato. Appunto.
La prima cosa è prendere possesso della nostra camera all’Hotel Lauri, una struttura vicino al centro storico con un delizioso cortile interno e le receptionist tra le più gentili che io abbia avuto la fortuna di incontrare. Unica pecca: si trova in un vicolo dove è possibile fermarsi solo per scaricare le valigie e anche velocemente prima che il proprietario della macchina dietro vi meni. A quel punto usciamo alla scoperta di Macerata e del suo cibo visto che non abbiamo ancora pranzato.

La prima cosa che penso è che abbiano chiuso la città per ferie e noi non lo sapevamo. In giro solo noi e qualche incauto vecchietto che si è perso la puntata di Studio Aperto in cui invitano a non uscire nelle ore più calde. Negozi con le saracinesche minacciosamente abbassate e poi l’oasi nel deserto, il Digusto, un locale arredato apposta per le fotografie di food, che ci sfama con uno dei simboli marchigiani: il ciauscolo. Un panino dopo facciamo una passeggiata per i vicoli di Macerata fino ad arrivare a Piazza della Libertà, su cui si affacciano edifici come la Loggia dei Mercanti, il Palazzo del Comune e la Torre dell’Orologio. Quest’ultimo consiste in un enorme quadrante blu con indicazioni circa l’ora, i mesi, le fasi lunari, i pianeti e i segni zodiacali, un guazzabuglio di dettagli che culmina due volte al giorno nell’accensione di un carrillon con tanto di angelo con la tromba e Re Magi che vanno a rendere omaggio alla Madonna. Un pelino pacchiano, ma vale la pena perderci qualche minuto.

Più su ho detto che siamo in una fase di ristrettezze economiche dettate da questioni personali e da un viaggio alle porte. Quello che intendevo dire è che io sono a rota di shopping, ma ho un fidanzato molto molto serio che mi ricorda quanto sono brutte le dipendenze. Tranne concedermi ogni tanto un po’ di corda per farmi comprare oggetti deliziosi e assolutamente superflui. Tipo quelli che ho acquistato da Emporio Ultrafragola, come dicono loro stessi, “un emporio di cose perlopiù inutili ma belle”. Solo per i proprietari, vale ben una visita.

Dopodiché è la volta dello Sferisterio, una struttura voluta dai Cento Consorti, famiglie maceratesi benestanti che volevano un posto per il gioco della palla con il bracciale, e in seguito riconvertito a spazio per concerti e altri eventi culturali. Il biglietto ha un prezzo irrisorio ma si può camminare nell’arena solo fino a un certo punto. Non fatevi ingannare, dall’esterno è un edificio abbastanza anonimo e poi dentro rivela la sua anima neoclassica fatta di colonne e drappi. Volevo attaccare a cantare “Don’t Cry for me, Argentina” ma ci ho ripensato quando è entrata una comitiva urlando “Ispanico, Ispanico”. A ognuno le sue fantasie.

Facciamo una breve scappata nel chiostro di Palazzo Buonaccorsi prima di andare a cena all’Osteria dei Fiori, un piccolo locale dove mangiare piatti tipici della zona. Siccome oltre che di shopping, sono una drogata di Tripadvisor, mi ero informata e avevo letto delle recensioni sul servizio freddo dei proprietari. Ora, posto che non vado in un ristorante per fare nuove amicizie, la mia opinione è che il servizio può anche essere definito austero, ma la cucina ti accoglie e avvolge come l’abbraccio di un amante.  Abbiamo assaggiato di tutto, ma soprattutto i Vincisgrassi, una sorta di lasagna con tanto ragù e rigaglie di pollo che da sola vale il conto.

 

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GIORNO DUE – Il secondo giorno Dio creò la seconda colazione e vide che era cosa buona e giusta. Soprattutto buona. Fatta una prima colazione in albergo per dovere di cronaca, incontriamo gli amici di Alessio da Maga Cacao, una cioccolateria che ha una selezione di caffè talmente ampia che quando ho scelto, ero invecchiata di un anno. Golosa è dire poco. Trascorriamo la mattinata tra chiacchiere che scorrono facilmente e fette di torta ad accompagnare. Ci salutiamo dicendoci che ci vedremo ancora, quantomeno per assaggiare il cinghiale che fa la mamma di uno di loro. Ce ne andiamo con il sorriso che ti lascia il calore di persone belle.

Ci spostiamo verso la provincia di Ascoli Piceno, dove prosegue il nostro mini tour. Ci fermiamo prima a Grottammare Alta per goderci la vista del mare dall’alto per poi proseguire per Offida e assaggiare le olive. Nonostante l’ora tarda per il pranzo, il Vistrò ci fa accomodare e mangiare non solo il famoso fritto, ma anche un panino con delle polpette al sugo strepitose. Il problema dell’Italia è che si mangia bene ovunque.
Smaltiamo il pasto, visitando il Teatro Serpente Aureo, la Chiesa della Collegiata e Santa Maria della Rocca.
Il primo è uno dei tanti teatri storici disseminati per le Marche, che prende il suo nome dalla leggenda che circola intorno al nome stesso della città (Offida dal greco ophis, serpente). È una struttura ancora funzionante che ospita vari spettacoli, tra cui quello tanto sentito del Carnevale. La seconda è una bellissima e imponente chiesa che ospita nella cripta una fedele riproduzione della grotta della Madonna di Lourdes. Infine Santa Maria della Rocca, un castello di proprietà nobiliare poi ceduto ai monaci e costruito su due livelli.

Arriviamo finalmente alla meta del nostro viaggio, la Tenuta Cocci Grifoni, un’azienda vinicola che ha fatto di valori come il territorio, l’ecosostenibilità e la famiglia, i pilastri solidi su cui poggiare. Ho conosciuto la famiglia Cocci Grifoni un anno fa e da allora sono diventati parte della mia storia. Stavolta la scusa è Stappa 2018, una manifestazione enogastronomica con cui avvicinare il grande pubblico ai sapori di una terra.

Quando parlo di essere diventati parte della mia storia, intendo letteralmente. Ci sono incontri, nella vita, che lasciano un’impronta temporanea destinata a non lasciare traccia, poi ci sono loro, che non hanno esitato a ospitarci nella propria casa, facendoci entrare nella loro intimità, dividendo con noi la tavola, il letto e il bagno. La capobanda, la signora Diana, piccola di statura ma con il piglio del comandante di un esercito, ci ha preparato la colazione la mattina dopo, accogliendoci nella sua cucina da nonna con una tazza di caffè e la crostata fatta in casa. Hanno pranzato insieme a noi con gli avanzi della sera prima, parlando davanti a un calice di bianco di brand identity, generazionalità e rapporti umani. Questi sono i Cocci Grifoni, una famiglia che allunga le sue radici a tutti quelli che lo chiedono.
Se passate da queste parti, ma anche se non ci passate, merita di essere conosciuto questo angolo di paradiso che non ha dimenticato le sue radici, ma che sa anche l’importanza di tramandarle e se necessario cambiarle per le generazioni future.

GIORNO TRE – È l’ora dei saluti, l’azienda porta ancora i segni floreali della sera precedente, noi mangiamo un boccone di fronte alle colline che si stendono morbide e rigogliose. Ci lasciamo con un abbraccio e anche qui con la promessa di tornare.

Sono stati tre giorni, troppo pochi per riprendersi da un anno emotivamente e professionalmente intensissimo, ma pieno di persone, dei loro abbracci, della loro capacità di cambiare insieme a te, delle parole di conforto, dei sorrisi sinceri e dei cuori ancora di più.